La Grotta Azzurra di Capri, 1826. Nascita di un Mito raccontata dalla viva voce dello scopritore – Ottava parte

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Carl-Friedrich Seiffert, Die Blaue Grotte von Capri, 1860

Isola di Capri. Estate 1826. Nella settima puntata del racconto sulla scoperta della Grotta Azzurra di Capri, August Kopish descrive lo stupore, la meraviglia, l’emozione unica di una scoperta che avrebbe cambiato per sempre le sorti dell’isola di Capri. La nascita del mito della Grotta Azzurra. Un mito reale, la celebrazione della bellezza della natura che incontra l’opera dell’uomo alla ricerca della perfetta armonia dei sensi e dello spirito. I protagonisti del racconto si attardano ad esplorare ogni possibile anfratto di quell’antro meraviglioso nel quale ad aspettarli non c’erano mostri marini o demoni dell’inferno ma uno degli spettacoli più suggestivi della Natura. Ricordiamo ai nostri lettori che il racconto è in versione integrale, nella traduzione dal tedesco a cura di Ingrid F. Stern. Qui di seguito, la VIIIa Parte.

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Ernst Fries, Die Blaue Grotte von Capri, 1826

La scoperta della Grotta Azzurra a Capri | Entdeckung der Blauen Grotte auf der Insel Capri – Ottava parte

di August Kopisch (leggi Prima parte; Seconda parte; Terza parte; Quarta parte; Quinta parte; Sesta parte; Settima parte)

Intorno all’orlo rosso cupo, che formato da animaletti marini fregiava in basso le pareti della grotta, il mare si infrangeva con uno sfavillio di spruzzi, in cui scherzavano i colori di tutte le gemme. Nell’apertura dell’ingresso risplendeva la chiara luce del giorno e il suo raggio si stendeva sull’acqua come un raggio lunare. Noi, in tanta bellezza, dimenticando il corridoio, Tiberio e tutto il resto, decidemmo di ritrarre la grotta, per tentare, in seguito, di dipingerla.

Saltammo perciò in acqua; nuotammo fino all’esterno per prendere le nostre sedie da campo e le nostre cartelle, e poi ci mettemmo a sedere sulla finestra. Ci tenevamo reciprocamente la lanterna, perchè ciascuno di noi potesse vedere quello che disegnava, e così portammo a termine due vedute della grotta.

Intanto il piccolo Pagano e l’asinaio, consegnate le barche ad altri marinai, vennero dentro anch’essi con grida festose e nuotavano esultando in quella splendida acqua simili a diavoli neri: ovunque battessero le onde, sprizzavano azzurre scintille.

Ma don Pagano per il quale il nostro disegnare durava troppo a lungo, ci lasciò: aveva affari a Capri e non poteva trattenersi come avrebbe voluto. All’uscita dalla grotta incontrò il proprietario del terreno di cui essa faceva parte. Costui, avendo sentito quelle grida di giubilante entusiasmo, era sceso aggrappandosi alla roccia, a mo’ di capra, e stava proprio guardando a bocca aperta, fra curiosità ed orrore, verso l’ingresso, quando ne venne fuori una faccia a lui conosciuta: appunto il nostro notaio.

“Voi signor notaio? Di là venite? E cos’è questo giubilo?”

“Il diavolo è dentro!” rispose con umore vivace il notaio, ora del tutto rincuorato, e nuotò verso la barca. Salito a bordo e mettendosi addosso la camicia, agigunse: “Lanciate uno sguardo anche voi, per vedere che viso ha!”

Lo stupito proprietario del fondo, indotto da più di un motivo, si fece coraggio, e gettati via i vestiti, nuotò verso di noi. Il piccolo Pagano e l’asinaio lo salutarono con grida di esultanza. Questo gioioso strepito, la grotta, l’acqua, il fuoco, il nostro singolare aspetto di disegnatori, tutto suscitò in lui sempre maggior meraviglia.

“Come avete potuto trovare il coraggio di nuotare in questa buca? Io sono cresciuto qui, tutto questo mi appartiene ma non ho mai osato di venire a vedere le mie cose. Voi stranieri avete il cuore fatto di pietra e di ferro”, esclamò alla fine, concludendo.

Ora avevamo terminato i nostri disegni e stabilimmo di continuare l’esplorazione della grotta. Io presi la lanterna ed andai innanzi, sbirciando. Tutti gli altri mi seguivano.

Ci trovammo dapprima, a sinistra, sotto una labirintica volta di stalattiti, e camminavamo su delle cave croste di roccia, che, pur avendo lo spessore di mezzo pollice, ci avrebbero retto sicuramente. Questa parte della grotta sboccava nuovamente, con una specie di portale, in quella più grande, offrendo una delle più splendide vedute. Tornammo indietro e trovammo, più a destra, un corridoio più lungo. Seguendolo, ci imbattemmo in alcune pietre che sembravano resti di una costruzione in muratura. “Qui c’è un tesoro ed è mio!”, gridò il proprietario, e vi si gettò sopra. Ridemmo di cuore perchè non si trocò nulla. Tuttavia, il cercatore di tesori non si lascò confondere, e la scena si ripeté in altri luoghi e parecchie volte, con nostro divertimento, finchè un piccolo imprevisto gli fece perdere d’improvviso la bussola.

Mentre continuava a precedermi, sempre con la stessa fervida sollecitudine,  d’improvviso si adombrò e retrocesse così precipitosamente che per poco non mi fece cadere di mano la lanterna. “Che c’è?”, chiesi meravigliato. “Sst! Udite…” e si strinse a me pallido come un cadavere, sicché mi accorsi che tremava. Il piccolo Pagano e l’asinaio, col dito sulle labbra, tacevano e tremavano anch’essi; il mio compagno di viaggio domando: “Ebbene?” e intorno a noi si fece un silenzio di morte.

Ora si percepiva distintamente un suono come piong, pang, pang, pang, pang…che proveniva dal fondo scuro del corridoio. “Non è altro che una goccia d’acqua sulla pietra vuota!” esclamai. “Avanti!” Così dicendo mi avanzai oltre, ma ecco, subito, qualche cosa di singolare: se tenevo la lanterna abbassata, ardeva male; se la sollevavo in alto faceva luce come di consueto. “Guardate che razza di stranezze ci sono qui! In questa grotta non c’è nulla che vada per il verso giusto! Cerchiamo di uscircene!” sussurrò il proprietario agli altri due capresi, e tutti e tre si fecero il segno della croce.

“Non è altro che aria cattiva!” dissi loro vedendoli spaventati.

“Si, si, la peggiore! Andiamocene fuori, in nome di Dio!”

Anche noi stranieri ritenemmo ora opportuno tornare indietro, ma prima, volli far luce ancora per un po’ davanti a me, con la lanterna alzata. Vedemmo allora a terra, in un certo punto, qualcosa che somigliava a un fumo bianco e pesante. Ritenemmo che fosse una cosiddetta cattiva esalazione e ci trattenemmo un po’ ad osservarla, non avendone mai viste di simili. Ma i capresi ci scongiurarono di andar via e già retrocedevano a tastoni nel buio. Nessuno di loro voleva restare per ultimo. Per quanto all’inizio questa loro fuga alla cieca ci facesse ridere, divenimmo subito seri quando ci accorgemmo che non eravamo più nel corridoio nel quale eravamo entrati prima.

Il confuso arrancare dei fuggitivi non mi fece inizialmente riconoscere l’errore nel raggio della lanterna, finché non ci trovammo in un luogo spiccatamente diverso da quello in cui eravamo entrati all’inizio. “Dio ci liberi!”, esclamarono i capresi. Eravamo ora in un corridoio molto più spaziosoe regolare; io posi alcune pietre in un certo ordine, a contrassegnare il luogo in cui ci eravamo accorti dell’errore, ed esortai tutti ad esplorare anche questo. Porbabilmente era proprio il corridoio principale, giacché l’altro appariva troppo misero per essere un’opera dei Romani. Tuttavia lo avremmo di nuovo trovato, quell’altro, grazie al segno che avevo lasciato. Ma i capresi mi supplicavano di rimandare la nuova impresa, mentre il mio amico mi sollecitò a controllare se non stesse per finire l’olio della nostra lanterna, quand’essa, infatti, improvvisamente si spense. (Fine P. 8Continua)
 
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