La Grotta Azzurra di Capri, 1826. Nascita di un Mito raccontata dalla viva voce dello scopritore – Sesta parte

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William Stanley Haseltine, Natural Arch at Capri, 1871, National Gallery of Art, Washington

Isola di Capri. Estate 1826. Nella quinta puntata del racconto sulla scoperta della Grotta Azzurra, avevamo lasciato i nostri protagonisti presso l’Hotel Pagano alle prese col fratello del titolare, un canonico intriso di superstizione che tentava con tutte le argomentazioni possibili di dissuadere suo fratello e i suoi ospiti dall’andare ad esplorare quell’antro dall’oscura fama, non potendo immaginare che quel luogo avrebbe presto fatto la fortuna dell’isola. Il notaio Pagano e i due tedeschi decidono dunque di non demordere e di tener testa a quel prete dal piglio inquisitorio che stizzito, alla fine molla la presa ed esce dalla stanza, con gran sollievo di tutti, ormai prossimi ad andare a letto in vista del grande giorno. Come sempre vi ricordiamo che il racconto è in versione integrale, nella traduzione dal tedesco a cura di Ingrid F. Stern. Qui di seguito, la VIa Parte.

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William Stanley Haseltine, Marina Piccola, Capri, c. 1870, Maryhill Museum of Art, Goldendale (Washington)

La scoperta della Grotta Azzurra a Capri | Entdeckung der Blauen Grotte auf der Insel Capri – Sesta parte

di August Kopisch (leggi Prima parte; Seconda parte; Terza parte; Quarta parte; Quinta parte)

Trascorsi la notte ora sonnecchiando, ora stranamente sognando. Com’era prevedibile il sogno mi portò nella grotta. Eravamo sbarcati al suo interno e percorrevamo lunghi corridoi. Tutt’intorno si vedevano scheletri appesi in ogni posizione e uno di essi non faceva che bestemmiare in latino. Improvvisamente udimmo dei passi e vedemmo avanzare l’imperatore Tiberio. Un soldato romano si accostò a noi chiedendoci cosa volessimo. E mentre pensavo a cosa rispondergli mi svegliai; poi mi riaddormentai e sognai che eravamo di nuovo nella grotta e scoprivamo una porta di bronzo. Eravamo muniti di picconi e nel forzare la porta, scorgemmo attraverso le fenditure una magnifica sala. D’un tratto la porta cadde al suolo davanti a noi e venimmo investiti da una raffica di vento tempestoso. Il mare, penetrato nella sala, abbatté le panche, le statue e i tripodi. Tutto precipitò al suolo. Le onde travolsero anche noi scagliandoci contro le pareti affrescate della sala. Sospinto verso il soffitto mi aggrappai a un anello là infisso rimanendo per un po’ di tempo a penzoloni; ma l’anello cedette, il soffitto si curvò, tutto sembrava precipitare…e io mi svegliai.

Non passò molto e si fece mattino. Svegliai il mio amico, ci vestimmo ed andammo da don Pagano, che trovammo già pronto. Aveva riempito un paniere di viveri per la nostra spedizione, portando con sè anche una lanterna per il caso in cui fossimo sbarcati nella grotta.

Arrivò quindi la colazione e subito dopo, bello pimpante, anche il figlioletto di Pagano. Dopo esserci rifocillati, ci avviamo allegramente: ma per nulla allegro era lo sguardo con cui la famiglia del notaio ci seguiva.

In circa mezz’ora la piccola comitiva raggiunse la marina settentrionale dove Angelo stava ad aspettarci insieme con il nostro asinaio Michele Furerico [è probabile che la dizione esatta sia Federico, cognome diffuso sull’isola – NdR]. In un piccolo battello caricammo le tinozze, le padelline della pece, le lanterne e le funi e, montati su un battello più grande, portammo a rimorchio il primo. L’asinaio e Angelo remavano con tale sollecitudine che dovemmo pregarli di rallentare per poter osservare la costa che ci mostrava meraviglie d’ogni tipo.

Virati a sinistra, attraversammo il mare liscio come specchio, lasciandoci dietro una lunga scia, proprio lungo la costa settentrionale, dinanzi alla villa tiberiana di Nettuno; e presto venimmo a trovarci sotto la parete rocciosa sospesa quasi a piombo. Su di essa, là dove scende sempre più bassa, osservammo varie nicchie e grotte con stalattiti, in alcune delle quali si rifrangono le onde del mare. Io ardevo dall’impazienza di arrivare a quella per cui eravamo venuti, ma man mano che ci avvicinavamo, il mio compagno mostrava sempre meno voglia di nuotarvi all’interno. “Il notaio ci ha persuasi a furia di chiacchiere: vedrai che non troveremo nulla e, per giunta, egli riderà di noi”. Questo andava dicendo. Io gli dissi che il notaio non ne avrebbe avuto modo perchè l’avremmo messo in mezzo, nuotandogli io davanti e lui dietro. E qualora nulla avessimo trovato nella grotta, avremmo potuto fargli fare delle calate a nostro gusto, per punizione, così saremmo stati noi a farci delle belle risate. Questa prospettiva finì col migliorare l’umore del mio amico.

Preparandoci a calarci in mare, cominciammo a levarci gli abiti più pesanti e invitammo il notaio, diventato improvvisamente un po’ serio,a  fare altrettanto. “Sono ancora troppo accaldato”, disse, rimanendo come si trovava.

I rematori, fino a quel momento abbastanza loquaci, divennero stranamente seriosi.

Poco dopo doppiammo una punta della rupe, ritirammo i remi, e la barca restò ferma.  Nessuno diceva una parola.

“Perchè ci siamo fermati qui?”, chiesi.

“Qui è la grotta!”, rispose Angelo con una certa inquietudine.

“Dove?”, chiesi ancora.

Egli me ne indicò allora l’oscuro accesso, non molto più grande di una feritoia, in fondo alla piccola baia. Il mare che lì era di un azzurro cupo, sciabordava placido dentro e fuori il limite dell’imbocco.

Intorno a noi il silenzio. Don Pagano era diventato improvvisamente pensoso.

“Ora, Angelo, preparate il fuoco”, dissi io, interrompendo quel grave silenzio. “Non abbiamo molto tempo e vogliamo entrare e uscire alla svelta”.

Angelo passò nella barca più piccola, mise la padellina in una delle tinozze, batté acciarino e pietra, come i compagni di Enea, ed ecco che immediatamente cominciò ad avvampare il più allegro fuoco di pece che si fosse mai visto. La fiamma e il fumo erano così grossi che il viso di Angelo, quando mise la tinozza a mare, sembrava un limone sotto la pressa.

Noi stranieri ridevamo di cuore, ma il notaio era sempre più serio. “Presto, signor notaio – dissi io – spogliatevi!”

“Sono ancora accaldato, non fate complimenti! Nuotate pure avanti perchè vis eguirò subito.”

“No, carissimo amico, non era questo l’accordo. Dobbiamo nuotare tutti insieme”

“Ma perché tutti?”

“Perchè altrimenti sembrerebbe che voi abbiate paura, caro signor notaio. Su, vi aiuto io un pochino a spogliarvi”

“No, no: lasciatemi. Veramente sono ancora un poco accaldato”.

“Bene. Aspettiamo un po’”.

Alla fine il notaio cominciò a togliersi gli abiti.

“Andate, andate;  vi verrò subito dietro”.

“No”, dissi prendendolo per le spalle. “Signor notaio, se non vi preparate subito a nuotare vi getto in acqua come siete”. Queste parole, dette un po’ sul serio un po’ per scherzare, non fallirono il loro obiettivo. Si liberò dai suoi vestiti ma continuava ad indugiare non volendo ancora gettarsi in acqua. Allora, al momento propizio, gli detti una piccola spinta sulle spalle e tanfete! si ritrovò in acqua e in un attimo ritornò a galla simile a un pezzo di sughero, sguazzando su e giù. Era una di quelle nature leggere che non affondano nell’acqua, se non per riemergerne subito.

Noi stranieri ci affrettammo a tuffarci e gli nuotammo allegramente intorno. Egli non aveva preso male lo scherzo, ma, poichè si avvicinava il momento fatale, non era per nulla partecipe della nostra allegria. Angelo, accoccolato alla turca in una delle tinozze, remava verso l’apertura della grotta, spingendo davanti a sè l’altra tinozza col fuoco.

Credo che nessuno di noi fosse privo di una certa apprensione. Ma non già perchè avessi timore di quelle favole che avevamo sentito, ma perchè pensavo ai veri pescecani citati dal canonico, per cui chiesi al buon Angelo se lì ce ne fossero. La sua risposta – “Non abbiate paura! Non vanno tra le rocce” – non mi tranquillizzò a sufficienza. “La fa facile lui – pensavo – che sta con le gambe dentro la tinozza!”.

Ora egli era sotto l’ingresso e si sospinse all’interno procedendo a tastoni lungo le pareti. (Fine P. VI – Continua)
 
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