Francesco La Cava: il medico calabrese che scoprì il volto di Michelangelo nel Giudizio Universale e disquisì sulle cause della morte di Gesù

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Particolari del Giudizio Universale (1536-41) di Michelangelo Buonarroti. A destra San Bartolomeo reca in mano la sua pelle

di Redazione FdS

L’autoritratto di Michelangelo nel Giudizio Universale

Roma, Città del Vaticano, maggio 1923. Quella mattina il quarantasettenne Francesco La Cava, professione medico, passeggiava sotto le volte della Cappella Sistina con aria un po’ accigliata e passo irrequieto. Lo sguardo vagava frenetico fra le figure di santi e dannati, ma i conti sembravano non tornare. Era mai possibile, si chiedeva, che il sommo Michelangelo non avesse lasciato una qualche traccia di sè  in quell’opera capitale destinata a perpetuarne la memoria presso i posteri? Questa era solo una delle tante domande che lo assillavano da quando, spinto dalla profonda cultura umanistica, dalla buona conoscenza del Latino e del Greco, ma soprattutto dall’amore per l’arte, non faceva altro che visitare musei e gallerie, per approfondire, con la minuziosità e la pazienza tipiche di un medico, le più svariate questioni.

Fece qualche altro passo da sinistra verso destra e da destra verso sinistra, poi puntò lo sguardo dritto ai piedi del Cristo, figura maestosa e severa nell’atto dell’estremo Giudizio. In posizione predominante notò san Lorenzo con la graticola del martirio e sulla destra san Bartolomeo, presenze entrambe giustificate forse dal fatto che la cappella, oltre che all’Assunta, era dedicata ai due santi. Bartolomeo in particolare, riconoscibile dal coltello, tiene in mano l’attributo della sua pelle, forse un’allegoria della liberazione dal peccato. Lo sguardo del medico corse poi sul volto di Bartolomeo, secondo alcuni possibile ritratto del poeta Pietro Aretino, nemico giurato del Buonarroti del quale sparlò il più possibile per punirlo di non averlo accettato quale consulente nella realizzazione del Giudizio. Tutt’intorno scorse poi alcuni santi facilmente riconoscibili ed altri senza attributi sulla cui identità le ipotesi si sprecano sollevando intricate questioni interpretative. Ma ecco che qualcosa ricatalizzò la sua attenzione su Bartolomeo e su quella macabra spoglia pendente dalla sua mano sinistra. Un brivido gli corse lungo la schiena, perchè vide ad un tratto il volto di Michelangelo, lì nelle pieghe di  quelle sembianze deformi. Era un caso, neppure particolarmente raro, di anamorfismo in pittura, grazie al quale per effetto di una illusione ottica un’immagine viene proiettata sul piano in modo distorto, rendendo il soggetto originale riconoscibile solamente guardando l’immagine da una posizione precisa.

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Ritratto di Michelangelo in un’antica incisione – Photo by FLORENCEandTUSCANYtours | CCBY2.0

All’eccitazione della scoperta seguì per La Cava subito un senso come di titubanza. A un custode che lo teneva d’occhio come il falco la propria preda, il medico chiese se risultasse esserci nel Giudizio Universale il volto di Michelangelo, ma quello negò in modo lapidario. La Cava si soffermò allora un attimo a raccogliere i pensieri, sentì che la sua prima impressione era quella giusta e decise così che era giunto il momento di intraprendere un approfondito periodo di studi michelangioleschi. Due anni gli furono sufficienti per rimuovere ogni dubbio, al punto che – nel marzo 1925, a 450 anni esatti dalla nascita del sommo artista – La Cava dette alle stampe per l’editore Zanichelli di Bologna il libro “Il volto di Michelangelo scoperto nel Giudizio Finale”, esempio di prosa dallo stile limpido e preciso. L’opera consiste in sei capitoli e nell’epilogo l’Autore riconosce l’audacia della sua tesi e teme che possa provocare una reazione della critica. Lo studio in effetti fece scalpore ma ebbe vasti ed entusiastici consensi, come testimoniato da articoli sul tema firmati da Diego Angeli, Giovanni Papini e Corrado Ricci. Due anni dopo, il biografo francese di Michelangelo, Romain Rolland, scrisse una lettera al La Cava nella quale esprimeva tutta la sua meraviglia per una simile scoperta, cui egli non era pervenuto, pur avendo sempre notato la rilevante differenza tra il volto del Santo e quello della spoglia. Come lo stesso La Cava avrebbe successivamente scritto, la sua fu un’intuizione a cui giunse attraverso un percorso psicologico maturato nelle ripetute visite ai capolavori custoditi in Vaticano che lo avrebbero infine reso spiritualmente capace di recepire, di cogliere quell’immagine suggestiva, che, agli occhi di un critico, spesso troppo preso dall’analisi, non era mai apparsa. Ricordare questo contributo interpretativo di La Cava sull’opera di Michelangelo, ci è parso un modo ‘alternativo’ per celebrare i 450 anni della morte del grande Maestro del Rinascimento italiano (18 febbraio 1864 – 18 febbraio 2014).

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Visione d’insieme del Giudizio Universale di Michelangelo Buonarroti, XVI sec. – Cappella Sistina, Città del Vaticano – Photo by Angelus | CCBY-SA3.0

L’analisi scientifica delle cause della morte di Gesù

Il contributo di Francesco La Cava alla soluzione di enigmi legati all’arte e alla storia, non si fermò alla sola identificazione dell’autoritratto di Michelangelo nel Giudizio Universale, ma si spinse fino ad entrare in un territorio minato come quello in cui convivono Storia e Fede. Attorno al 1930 visse infatti un graduale riavvicinamento alla pratica religiosa, da cui si era allontanato per le idee liberali che aveva coltivato fin dal periodo universitario. La rinnovata fede lo portò quindi ad affrontare studi sul meccanismo della morte per crocifissione. Come dichiarò Paolo Pozzilli, endocrinologo dell’Universita’ Campus Biomedico di Roma, in occasione del convegno su Francesco La Cava tenutosi a Bovalino Marina (Reggio Calabria) nel 2001, “La Cava giunse alle stesse conclusioni di un ricercatore dell’Universita’ di Baltimora, ma con oltre 60 anni di anticipo”. Nel 1930 uscì infatti il testo “Era Gesù Cristo affetto da pleurite? Meccanismo della morte per crocifissione”. Nel volume il medico analizza il colpo di lancia di Longino inferto al costato di Gesù morto, che provocò la fuoriuscita di sangue e di acqua. Secondo La Cava, l’atteggiamento inspiratorio prolungato aveva portato la vena azygos (vaso impari asimmetrico, situato nella cavità toracica e addominale) a riempirsi di sangue, la cui pressione aveva provocato la trasudazione di siero e un conseguente idrotorace da stasi nel cavo pleurico. Nel 1946 riprese l’argomento in “Il reperto necroscopico di Longino sul costato di Gesù Cristo” e infine nel 1953 pubblicò un’opera analoga, “La passione e la morte di N.S. Gesù Cristo illustrate dalla scienza medica”, tutti studi caratterizzati da estrema chiarezza e precisione. Come scrisse lo stesso La Cava, egli fu sempre consapevole del fatto che nell’affrontare questi temi avrebbe rischiato quella cattiva fama che si erano già procurati presso i fedeli altri medici che vollero occuparsi da un punto di vista naturalistico dei misteri della fede, ma la volontà di ricercare per capire non lo fece mai desistere dal suo intento.

Francesco La Cava: frammenti biografici | I primi studi in Italia sulle malattie tropicali

Viene spontaneo a questo punto chiedersi attraverso quali percorsi di vita sia venuta formandosi una personalità così eclettica come quella di Francesco La Cava, non dimenticando che, in parallelo con la professione medica, si interessò non solo di arte e di scienza applicata alla religione, ma anche di filologia, come testimoniano alcuni suoi lavori in questo ambito: dal testo “Ut videntes non Videant”, con cui nel 1934 affrontò lo spinoso problema della funzione delle parabole, prendendo l’avvio da un analisi filologica del testo evangelico, al volume “Ne quando convertantur”, del 1935, nel quale continuò l’analisi di un passo dell’evangelista Marco. Ebbene, Francesco La Cava nacque il 26 maggio 1876 da una famiglia di piccoli proprietari terrieri di Careri (Reggio Calabria): primo dei sei figli di Giuseppe La Cava e Giuseppina Colacresi, fu oggetto delle cure di uno zio paterno, l’arciprete Rocco La Cava, che lo avviò ai primi studi. Avendo mostrato notevoli attitudini per gli studi classici, il giovane fu inviato a frequentare il liceo ‘Francesco Maurolico’ di Messina, che raccoglieva gli elementi più promettenti delle provincie vicine. Nel 1895, conseguita la maturità classica, si iscrisse alla Facoltà di medicina dell’ università di Napoli.

Già dopo il quarto anno di università, cominciò a prestare assistenza ai malati nel suo paese, affiancando il medico Francesco Perri, suo parente ed amico. Nonostante gli studi scientifici il suo interesse per l’arte e la letteratura non venne mai meno. Nel 1902 si laureò brillantemente e ben presto gli venne offerta la possibilità di lavorare a titolo gratuito al fianco del professor Antonio Cardarelli, che lo aveva notato per la sua intelligenza, ma le condizioni economiche non glielo permisero. Svolse quindi il servizio militare a Firenze quale ufficiale medico del corpo dei Bersaglieri, e, tornato nel 1904 in Calabria, accettò l’umile ruolo di medico condotto rurale a Bovalino Marina. Qui il neo-dottore conobbe la giovane Concettina Morisciano, appartenente ad una nobile famiglia del paese. I due si sposarono il 30 giugno 1907, un matrimonio che risultò essere dei più felici.

Gestire l’ambulatorio di Bovalino non lo fece desistere dagli studi scientifici, anzi, i suoi sforzi continui furono ricompensati dalla scoperta in quella zona di casi di malattie tropicali mai manifestate in Europa. Non si limitò a curare tali patologie, ma ne approfondì lo studio a livello teorico, riferendo le sue esperienze su riviste, come quella dell’Accademia dei Lincei, e in congressi. Il primo caso fu presentato nel nº 21 della Gazzetta Medica, “Un caso di febbre Dengue”, seguito, nello stesso anno da vari articoli pubblicati in collaborazione con il professor Gabbi, docente di malattie esotiche all’università di Roma: “Nuovi esempi clinici di Bottone d’ oriente”,Il primo caso di Bottone d’Oriente”, “Studio istologico del bottone d’oriente e dell’ adenite sintomatica”.

Nel 1911 La Cava pubblicò uno studio “Sulla presenza di Leishmanie nel liquido cefalo-rachidiano di un bambino affetto da Kala-azar”, dove sottolineò alcuni importanti dettagli utili per la diagnosi della malattia. Tale pubblicazione venne in seguito approfondita in collaborazione con i professori Basile e Visentini, cercando di individuare quali fossero le condizioni dell’ambiente in cui era iniziata, e si stava evolvendo la malattia.

Sempre attento alle innovazioni in campo terapeutico La Cava seppe, attraverso una rivista scientifica, che il Dott. Rogers, studioso inglese di patologie tropicali, aveva individuato la terapia dell’Amebiasi mediante il Cloroidrato di emetina. Messosi in contatto con il medico inglese ottenne l’invio della sostanza e poté curare i casi di dissenteria che aveva diagnosticato a Bovalino.

I grandi rivolgimenti internazionali del 1914 provocarono inevitabilmente molti problemi anche alla famiglia La Cava: il dottore venne richiamato alle armi sin dalla fine del 1914, e prestò servizio per alcuni mesi a Gerace. Nel maggio del 1915 partì ufficialmente per il fronte. La partenza del marito fu motivo di grande sconforto per la moglie, che rimase sola con i due figli nella amata casa di Bovalino.

Alla fine del 1917, il La Cava, promosso Maggiore, fu trasferito a Roma come direttore dell’ospedale di riserva ‘Aurelio Saffi’. Una volta stabilitosi nella Capitale, il suo primo pensiero fu quello di ricongiungersi con la famiglia, con la quale si stabilì in via Po, nei pressi di Piazza Quadrata. Oltre alla sua attività presso l’ospedale militare, iniziò a guadagnarsi una vasta clientela privata, e, tra il 1917 e il 1918, durante una terribile epidemia di Spagnola, si prodigò nella cura dei malati, spesso senza compenso. Il suo atteggiamento verso chi non poteva permettersi le cure fece evidentemente emergere la sua indole di uomo che aveva fondato la propria esistenza e le proprie opere sull’amore per l’uomo e per il proprio mestiere.

Tra il 1946 e il 1952 combatté con coraggio contro la malattia che aveva colpito la moglie, la quale venne a mancare il 23 Aprile 1952. Con fermezza e rassegnazione si abituò al vuoto incolmabile che la sua compagna aveva lasciato e divenne per i figli un padre amoroso. La morte lo colse improvvisamente il 25 Maggio 1958. Si era recato, accompagnato da Virgilio, il più giovane dei figli, a votare nel seggio del suo quartiere, quando, colpito improvvisamente da un collasso cardiaco, dopo alcuni minuti cessò di vivere sotto gli occhi del figlio e di quanti lo avevano soccorso. La scomparsa del Professor La Cava fu riportata su tutti i giornali, che ne rievocarono la figura e le opere. Ed è quanto ha fatto anche un convegno tenutosi nel luglio 2001 a Bovalino Marina, occasione nella quale è emersa con forza la figura di un medico tra ‘800 e ‘900, attento ai suoi pazienti ma anche alla ricerca“Era un medico con caratteristiche tipiche del suo tempo che oggi devono essere rivalutate – spiegò il relatore Paolo Pozzilli. “L’aspetto umanistico nella medicina, infatti, rappresenta una virtù rara ma necessaria. Soprattutto oggi, quando biotecnologie e la diagnostica computerizzata rendono la figura del medico di stampo sempre più tecnico (…) E’ necessario riacquistare l’umanità di cui il paziente ha bisogno – ha aggiunto Pozzilli – esattamente quanto una diagnosi scientificamente corretta. L’esempio di medici come La Cava, che hanno dedicato all’aspetto umano grande attenzione, va riletto alla luce dell’esperienza attuale”.

Bibliografia:
Francesco La Cava, Un medico alla ricerca della verità: dal Bottone d’Oriente al volto di Michelangelo e alle parabole del Vangelo, Minerva medica, 1977
Francesco La Cava, Era Gesù Cristo affetto da pleurite? Meccanismo della morte per crocifissione, 1930
Francesco La Cava, Il volto di Michelangelo scoperto nel Giudizio Finale: un dramma psicologico in un ritratto simbolico, Zanichelli, 1925
 

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