Ori e Bronzi della Magna Grecia | La Corona di Kritonios e il Satiro in ginocchio: due capolavori lucani a Monaco

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La corona aurea di Kritonios, da Armento (Potenza), 370-360 a.C.- Staatliche Antikensammlungen, Monaco di Baviera – Photo by Matthias Kabel | CCBY-SA3.0

“In questa corona c’è un gioioso senso di vita, un erompere dall’animo dell’artista di un gioia, infantile quasi, con la quale durante una passeggiata ha voluto cogliere rami fioriti e fronzuti per tradurli in oro, in tutta la sempre cangiante variabilità delle forme vegetali…”
Angelo Lipinsky

di Kasia Burney Gargiulo

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Corona di Kritonios, part. con la Dea Regina Triumphans

Basilicata 1814. Era il 2 agosto quando il Colonnello Diodato Sponsa di Avigliano, al servizio del re di Napoli Gioacchino Murat, ingaggiò quattro scavatori di Anzi e noncurante dei regi decreti sulla tutela del patrimonio archeologico, condusse uno scavo abusivo su tre sepolture a camera in contrada Serra d’Oro a tre miglia da Armento (Potenza), trovando qualcosa di estremamente prezioso nel sepolcro di un defunto cremato. Ecco cosa riferì di aver rinvenuto: “Una ghirlanda d’oro con iscrizione di 27 lettere. Un fauno di bronzo dall’altezza di un palmo e mezzo. Un candelabro di bronzo in cinque pezzi. Quattro vasi grandi. Una ventina di vasi piccioli di ricco valore. Una corniola. Degli ornamenti di donna in vari pezzi d’oro, ma rozzi”. La ghirlanda menzionata, trovata poggiata su una graticola accanto ad altri oggetti, altro non era che la Corona di Kritonios oggi custodita allo Staatliche Antikensammlungen di Monaco di Baviera. Un rinvenimento che ben si rispecchiava nel nome della contrada, successivamente mutato in Serra Lustrante ma pur sempre evocativo del ritrovamento di cose preziose. Come riferì infatti il regio funzionario Giuseppe Di Stefano in un dispaccio ai suoi superiori di Napoli, non era certo la prima volta che lo Sponsa, così come altri scavatori prima di lui, avevano “rinvenuto delle belle cose e l’hanno portate a Napoli a venderle…”, a riprova del massiccio esodo di oggetti d’arte ellenica e italiota che sarebbero andati ad arricchire soprattutto le grandi collezioni estere, pubbliche e private.

Riferendosi sempre alla splendida “corona o ghirlanda d’oro dal peso di un rotolo e due once”, vero capolavoro dell’oreficeria antica, così ne parlò a sua volta nel 1889 lo storico lucano Giacomo Racioppi: “E’ una ricca intrecciatura di nodi e frondi di quercia, con un gran rigoglio di fiori a corolle e calici aperti e smaltati in blu-turchese. Alati insetti pare si appoggino sulle estremità oscillanti per i delicatissimi gambi dei fiori e alcune figure di donne alate poggiano sui rami che formano il serto, il tutto in oro. Meraviglioso gioiello in cui la libera leggerezza dell’esecuzione, l’avvisato scompiglio dell’insieme e il ricco intreccio della vegetazione danno al tutto l’espressione della natura viva e reale. Porta scritto in greca lettera dell’alfabeto euclideo: Kreitonios ètecke toei stèfanon: Critonio dedicò questa corona. E se costui fosse l’artefice o possessore non so: ne so decidere, tra gli opposti pareri, se opera a destinazione funebre o se piuttosto a destinazioni civili solenni, prima dell’inumazione. La grafia dei caratteri indicherebbe i principi del VI secolo avanti Cristo. Probabile opera grecanica della civiltà italiota.”

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Corona di Kritonios (part.)

L’iscrizione in greco testimonia il fatto che ci troviamo in un’area di influenza greca, del resto stando a quello che riporta Plinio il Vecchio, Armento e tutta la zona era stata colonizzata dai greci, vi si parlava in greco, lingua di cui ancora oggi perdura qualche locuzione nel dialetto. Scrive Plinio: “Tenuerunt eam Pelasgi Aenotri, Siculi, Graeciae Maxime Populi, novissime Lucani”.

Con tutto l’insieme di fiori, fronde, rami, compresa la figura di dea alata che li sovrasta, la Corona misura un’altezza massima di cm. 37 ca. ed è stata realizzata interamente in oro quasi puro, con un titolo pari a 988/1.000, quindi con solo 12/1.000 di impurità in prevalenza costituite da rame e, forse, tellurio.

Secondo la tradizione, la Corona aurea di Kritonios fu acquistata per sessantamila ducati da Carolina Bonaparte, moglie di Murat e sorella di Napoleone I, al fine di destinarla al Museo Archeologico di Napoli. Con l’uccisione di Murat e la restaurazione dei Borboni, Carolina cercò rifugio in Austria, presso gli Asburgo, portando con sè le proprie collezioni, unica ricchezza rimastale. Nel 1826 re Luigi I di Baviera acquistò da lei tutto un blocco di antichità, fra cui la Corona di Armento che alla morte del sovrano sarebbe approdata al Museo Statale di Antichità di Monaco di Baviera, dove può essere ammirata oggi e dove costituisce uno dei pezzi più rilevanti dell’intera collezione.

Su questo straordinario reperto e sul suo ritrovamento vi è anche una ricostruzione romanzata del poeta Leonardo Sinisgalli, originario di Montemurro (Potenza), contenuta nel suo libro “L’albero bianco” al Capitolo “Lo scheletro cinto d’oro”.

LA CORONA DI KRITONIOS: UN GIARDINO PIENO DI VITA

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La Corona di Kritonius disegnata da Vinet, Paris 1883

La Corona di Kritonios è uno splendido frammento di giardino forgiato nell’immortale materia dell’oro. Forse una sorta di promessa di quei Campi Elisi che per i pagani erano la meta ultima delle anime amate dagli dèi, o un perenne tributo d’onore riecheggiante quelli che gli antichi usavano rendere ai vivi con corone fatte di vere fronde d’alberi e fiori. Tante erano le essenze – ciascuna con un suo significato simbolico – con cui si evocava quell’intimo contatto con la natura che caratterizzò le grandi civiltà del Mediterraneo. I popoli più antichi e quelli della civiltà cristiana medioevale, ha scritto Angelo Lipinsky, “avevano coscienza precisa dei sottilissimi e misteriosi legami che uniscono l’uomo in ogni momento della sua travagliata esistenza al mondo che lo circonda, che intorno a lui vibra di una molteplicità di manifestazioni di vita misteriosamente intrecciata”, non dissimili dagli intrecci di quelle corone che – aggiunge lo studioso – non avevano una mera funzione di ornato ma erano senza dubbio correlate a determinate credenze come “il rapporto tra le divinità e le piante loro sacre; il rapporto tra l’uomo e le piante, specie con quelle ritenute medicamentose o dotate di recondite virtutes”.

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Corona di Kritonios (part.)

L’affinamento delle tecniche artistiche – spiega Lipinsky – fece dunque sorgere il desiderio di realizzare corone che non avessero una durata effimera per cui “orefici e gioiellieri si apprestarono a foggiare corone in oro, argento, rame dorato, riproducendo or più or meno fedelmente quanto il mondo vegetale poteva offrire di materia all’ispirazione artistica. E’ stato il vanto di orefici e gioiellieri dell’Ellade, della Magna Graecia, degli Etruschi e dei Romani l’aver foggiato un grande numero di simili gioielli…”. All’oro, o al rame dorato, non mancavano di essere talvolta associati “grani di corallo, perle, qualche gemma, perfino qualche smalto (…) Talvolta in mezzo alle fronde si muovono Amorini”. E’ così che, frammisti agli elementi vegetali, nella Corona di Kritonios, troviamo una dea alata, tre Erotes e due Nikai che sembrano fluttuare su rami e fiori fra i quali figurano anche delle api riprodotte a sbalzo e proporzionate alla grandezza dei fiori. Al serto mancano purtroppo un intero mazzetto di fiori, un quarto Erote e, forse, qualche ape.

Se si escludono alcuni particolari stilizzati, le piante – accomunate dall’essere note fin da tempi remotissimi alla medicina popolare per le loro blande virtù terapeutiche – sono foggiate in modo realistico “al punto da permettere senza difficoltà alcuna – nota lo studioso – l’identificazione con le varietà botaniche più comuni della vegetazione “a macchia” lungo le coste e nei terreni semi-aridi“. Un mazzo di queste essenze, raccolto fra primavera e estate, deve aver ispirato l’artefice della corona, che tuttavia non rinunciò al suo estro creativo raffigurando anche alcuni fiori irreali. Ecco quindi in ordine sparso piante come lo Smilax aspera (la nostrana Salsapariglia, nota anche col nome comune di stracciabraghe) che, diversamente dall’edera con cui alcuni archeologi stranieri la confondono, non ha radici avventizie ma si arrampica con viticci oltre a produrre graziosi grappoli di lucide bacche rosse, elementi ben riprodotti nella Corona; rametti di Quercus pedunculata e Quercus troiana (varietà di quercia) con una, due o tre foglie e ghiande; fiori di selvatica Rosa canina, nella parte bassa del serto; Rose da giardino a fiore doppio, gia note ai giardinieri ellenici e romani; fronde di Crataegus oxyacantha (il comune biancospino, disposto in basso e nel giro interno della corona);  la Calendula officinalis; il Chrisanthemum nyconis; alcune fronde di Castagno, fiori di Malva e fiori di Convolvolo, riprodotto in quattro varietà (Convolvulus soldanella, althaeoides, elegantissimus e arvensis), la cui corolla è ricoperta di uno smalto azzurro intenso, un tipo di decorazione che ritroviamo anche su alcuni fiori di libera invenzione, a forma di stella.

LA “DEA REGINA TRIUMPHANS”

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Corona di Kritonios, part. con la Dea Regina Triumphans

Il serto di rami e fiori che forma la Corona di Kritonios, è sovrastato da una figura femminile alata che il Lipinsky ha definito Dea Regina Triumphans, ipotizzando che si tratti di una “rivisitazione” lucana di Hera/Giunone regina dell’Olimpo, protettrice delle donne dalla nascita al parto, alla morte. Egli esclude infatti che sia una Vittoria alata (Nike), e ciò per via del diadema a punte portato sul capo e di una sottile corona perlinata che compare fra le ciocche dei capelli poco sopra la fronte, attributi atipici per una Nike (il cui capo è usualmente cinto da un semplice nastro) ma affini con quelli di tre statuine di divinità femminile del VI sec. a.C. rinvenute nella Tuscia meridionale. Così come esulano dall’iconografia della Nike anche gli oggetti che questa figura porta nelle mani, la patera e lo scettro, invece della consueta palma. Viceversa sono delle vere Nikai le altre figure femminili che, insieme agli Erotes, accompagnano la dea in trionfo, alla quale potrebbe quindi riferirsi la terza parola dell’iscrizione dedicatoria (TOEI) che l’epigrafista Michel Lejeune traduce come “alla divinità”. La dea è l’unica figura ad essere stata fusa e cesellata a tutto tondo mentre le rimanenti sono lavorate in lamina, e solo sul lato anteriore. Essa indossa un chitone, modellato su spalle e petto, e un hymation decorato a granulazione che dalla spalla sinistra e dal braccio scende in larghe pieghe lungo il corpo. Il collo è ornato da una sottile collana terminante in un pendaglio in granulazione. Con la mano sinistra regge una patera mentre nella destra doveva stringere uno scettro oggi mancante. Ai piedi porta calzari chiusi in cuoio morbido e a punta tonda, mentre sulla testa acconciata con cura reca una corona a punte. Dalle spalle spuntano ali dalle lunghissime piume remiganti. La dea svetta su una base quasi cubica che reca l’iscrizione dedicatoria in greco.

L’IDENTITA’ DI KRITONIOS

Non sapremo mai – dice Lipinsky – chi mai fosse Kritonios e a quale scopo abbia voluto tributare al defunto un tale eccezionale gioiello, che congiunti e amici trattarono con cura escludendolo dalla cremazione sul rogo e riponendolo sopra una graticola di ferro all’interno del sepolcro. A meno che non si accolga l’affascinante, e per nulla inverosimile ipotesi formulata dallo stesso storico, il quale premette però di non avere prove certe, ma solo indizi: lo studioso muove dal dato, emerso dagli scavi condotti da Dinu Adamesteanu, secondo il quale la sepoltura contenente la corona non fa parte di una normale necropoli, ma è un piccolo mausoleo situato nell’area di un recinto sacro (tèmenos), quindi si tratta molto probabilmente di un heroon, ossia di un santuario dedicato a un personaggio di altissimi meriti, forse un capo lucano caduto eroicamente  nella guerra sostenuta nel 327 a.C. contro la potente Taranto, oppure nello scontro del 298 a.C. contro i Romani del console Cornelius Lucius Scipio Barbatus. Se così fosse, conclude Lipinsky, si può ipotizzare che Kritonios non sia altro che lo stesso defunto e che da vivo sia stato lui a dedicare il serto d’oro alla Dea Regina Triumphans che vi appare raffigurata. Un dono votivo quindi tolto dal santuario e riposto nella tomba di fronte all’avanzare del nemico e al rischio di depredazioni, mentre la libertà della gente lucana andava tramontando.

GLI ARTEFICI E LA FUNZIONE

Notando una marcata differenza di stile fra gli elementi naturalistici e le figure mitiche che popolano la Corona di Kritonios, lo storico dell’arte orafa Angelo Lipinsky lanciò a suo tempo l’ipotesi che questo gioiello fosse il prodotto di artefici diversi che collaborarono all’interno di una stessa bottega, unendo il gusto ellenistico per il realismo (evidente in rami e fiori), con elementi figurativi di periodi precedenti, forse basati su vecchi stampi. Per quanto riguarda invece l’ambiente artistico di produzione, egli ritiene che sia lucano sebbene non ignaro delle tecniche magno-greche, come suggerisce la stessa posizione geografica di Armento, forse concidente con l’antico insediamento lucano-ellenico di Calesa, località tutt’altro che priva di vie di collegamento con il litorale e con città come Herakleia, Metaponto e Taranto. Ma l’influsso si ferma appunto alle tecniche, perchè quanto al dato stilistico – dice Lipinsky – basta un raffronto con coevi diademi di ambito greco, come ad es. quelli di Canosa, Crispiano e Sant’Eufemia, per rendersi conto delle differenze.

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Corona aurea da Montefortino di Arcevia, IV-III sec. a.C., Museo Arch. Naz. Ancona

Questi ultimi presentano “una severa disciplina costruttiva e di proporzioni di fronte ad una nascente tendenza verso un naturalismo di carattere teocriteo (…), una più rigorosa strutturazione, anche nell’equilibrio cromatico raggiunto” e  “vi si avverte anche una notevole limitazione nell’uso degli elementi vegetali”, mostrando quindi di non avere la benché minima affinità con la Corona di Kritonios viceversa espressione di una sensibilità del tutto particolare, legata a una maggiore conoscenza dell’ambiente naturale da parte di popolazioni dal passato rurale e pastorale che, entrate in contatto con le poleis greche della costa, ne assimilarono quanto loro occorreva per esprimere la propria sensibilità. Nel senso di una bottega anellenica, deporrebbero secondo Lipinsky anche l’elemento dei grossi calzari indossati dalle tre figure femminili, laddove in ambito greco vince il carattere leggiadro e diafano del calzare femminile o il piede nudo, e quel tipo di granulazione diradata sui loro manti, che non trova riscontro nella produzione greca. Da qui la ragionevole teoria dell’esistenza di una bottega a Calesa/Armento, come dovettero essercene anche in altri centri lucani di un certo rilievo. Se si volessero trovare delle analogie con altri gioielli rinvenuti in Italia – nota Lipinsky -, il raffronto può farsi con le tre coeve e preziosissime corone a serto composte di lunghe foglie e fiori d’oro con tracce di smalto verde e turchese ritrovate in una sepoltura femminile della popolazione celtica dei Senoni, rinvenuta a Montefortino di Arcevia, nelle Marche. Custodite al Museo Archeologico Nazionale di Ancona, ci pongono anch’esse – conclude lo studioso – di fronte a una manifattura anellenica (secondo Lipinsky picena e non celtica) in cui si esprime un’attenta osservazione della natura interpretata con sensibilità tutta italica.

Se infine ci si interroga sulla funzione a cui l’oggetto dovette assolvere, la sua delicata struttura e il groviglio di racemi di Smilax che occupano tutta la parte centrale della corona escludono che questa fosse indossabile da qualcuno, quindi non restano che l’ipotesi del dono votivo per un santuario (se si condivide l’ipotesi del Lipinsky prima esposta) o l’omaggio onorifico ad un personaggio particolarmente meritevole, forse un grande poeta, un musicista, o un uomo che si era distinto nella vita pubblica di una di quelle città anelleniche lontane dalla costa.

 IL CONTESTO

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Corona di Kritonios, part. con Nike ed Erote

Come hanno dimostrato scavi condotti in modo scientifico da Dinu Adamesteanu a partire dalla fine degli anni ’60 del Novecento, e quelli più recenti (anni ’90) condotti da Alfonsina Russo, Serra Lustrante (già Serra d’Oro) è un sito archeologico di singolare importanza per chiarire meglio le dinamiche dei rapporti tra il mondo magno greco e indigeno tra IV e III sec. a.C. L’area risulta frequentata a partire dagli ultimi decenni del IV sec. a.C. come luogo di culto: a questo periodo si fa risalire un piccolo sacello quadrangolare con un percorso pavimentato annesso. Nel III sec. a.C. il santuario viene monumentalizzato, e impostato su due terrazze raccordate da una scalinata e divise da un muro a blocchi squadrati di arenaria. La monumentalizzazione del santuario, con la realizzazione dell’impianto scenografico a terrazze, si inquadra in un contesto edilizio tipicamente ellenistico. E’ quindi probabile il contatto diretto tra le popolazioni dell’interno e le maestranze magno-greche forse riconducibili alla colonia greca di Heraklea, posta sul fondovalle dell’Agri. Alla fine del III sec. a.C. si riconduce l’ultima fase edilizia, alla quale si attribuiscono alcuni ambienti sul lato sud del santuario, mentre risulta un abbandono graduale del sito a cavallo tra III e II sec. a.C., forse a seguito della definitiva romanizzazione della Val d’Agri.

Il Satiro inginocchiato, 375-350 a.C. da Armento (Potenza) - Photo by Matthias Kabel | CCBY-SA3.0

Il Satiro inginocchiato, 375-350 a.C. da Armento (Potenza) – Photo by Matthias Kabel | CCBY-SA3.0

Nel sacello della terrazza inferiore sono stati rinvenuti alcuni materiali pertinenti agli attributi tipici di Eracle, come la clava e la pelle del leone nemeo, trofeo della prima fatica di Eracle, con la quale l’eroe si rivestì. Il santuario dunque doveva pertanto essere dedicato a Eracle, inteso come il garante dei valori guerrieri e agonistici giovanili, nella doppia dimensione divina ed eroica. Del resto sia nel centro che nel sud Italia sono attestati culti a Eracle legati alla transumanza dei pastori e al culto delle acque, e non a caso ad Armento ci troviamo proprio in un punto di passaggio importante lungo il tragitto della transumanza tra i pascoli estivi dell’Appennino lucano e quelli invernali del litorale ionico.

IL SATIRO INGINOCCHIATO

Da una delle sepolture a camera scavate da Donato Sponsa a Serra Lustrante proviene anche l’altro capolavoro che qui presentiamo: il Satiro inginocchiato, custodito sempre allo Staatliche Antikensammlungen di Monaco di Baviera. Si trovava nella tomba pertinente a un guerriero, che ha restituito anche una lucerna in bronzo su un alto piede, vasi da simposio in bronzo e a figure rosse, armi da parata e la statuetta del satiro, possibile trofeo di guerra sottratto ad una città magnogreca. Anch’esso, come la Corona di Kritonios, è finito sul mercato antiquario di Napoli fra gli oggetti di Armento acquistati da Carolina Bonaparte. Nella statua bronzea, il satiro – divinità maschile minore connessa con il culto dionisiaco, abitatrice di boschi e montagne, personificazione della fertilità e della forza vitale della natura – è rappresentato nell’atto minaccioso di brandire con una mano un bastone e con l’altra una spada, mentre il corpo  – anatomicamente raffigurato fin nei dettagli con grande efficacia esecutiva – è in posizione inginocchiata ma nell’apparente slancio di chi sembra volersi risollevare. Il volto invece è quello leggermente corrugato di chi sta per assumere un atteggiamento minaccioso. La scultura presenta il colore bronzeo originario e non quel verde a cui ormai siamo abituati ad associare le opere antiche in questo metallo, in realtà dovuto ai millenari processi naturali di ossidazione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Bibliografia:
Avellino Francesco Maria, Osservazioni sopra una corona di oro trovata in un antico sepolcro, in “Memorie della Reale Accademia Ercolanense di Archeologia”, volume I, Stamperia Reale, Napoli 1822, pp. 208-213
Lipinsky Angelo, La corona aurea votiva di Armento. Un capitolo di oreficeria lucana del IV
sec.a.C. e i suoi problemi
, in “Antiche civiltà lucane: Atti del convegno di studi di archeologia, storia dell’arte e del folklore, Galatina 1975, pp. 59-98
Lombardi Andrea, La Corona di Critonio. Viaggio tra antiche città in Lucania, Osanna Edizioni, Venosa, 1987, pp. 110 (1a ed. 1836)
Racioppi Giacomo, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, 2 voll., Roma, Ermanno Loescher & C., 1889
Saponara Antonella Rosa, Scarci Azzurra, Le grandi scoperte del passato, le piccole realtà “dimenticate”: il caso della corona aurea di Armento (PZ), in Archeomafie, Anno IV, n. 4 (2012), OIA (Osservatorio Internazionale Archeomafie), Napoli 2012, (pp. 62-81)
Sinisgalli Leonardo, L’albero bianco, Osanna Edizioni, Venosa, 2009, pp. 140

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