Rischio mortale nella Hollywood del cinema muto. Il racconto del calabrese Eugene Gaudio

La 'photosphere' per le riprese subacquee di  20,000 Leagues Under the Sea (1916)

La ‘photosphere’ per le riprese subacquee di 20,000 Leagues Under the Sea (1916). In basso la camera di ripresa dove era posizionato Eugene Gaudio

L’articolo è tratto da un numero del New York Tribune del 1917. Sebbene l’autore, talentuoso pioniere della fotografia cinematografica, non menzioni il titolo del film subacqueo, si tratta di 20,000 Leagues Under the Sea (1916), diretto da Stuart Paton e prodotto da Universal Studios e Williamson Submarine Film Corporation. Eugene Gaudio è in fondo all’oceano, chiuso nella sfera d’acciaio predisposta per le riprese quando accade qualcosa…

di Eugene Gaudio

Eugene Gaudio in una foto tratta da da Cinema News (Nov. 1917)

Eugene Gaudio in una foto tratta da da Cinema News (Nov. 1917)

“Hai sicuramente nove vite, come un gatto” mi disse il regista di un film di ambientazione marina, quando “resuscitai” dopo una mia avventura in fondo all’oceano. “Abbiamo lavorato come delle furie ma non ci aspettavamo di vederti vivo quando ti abbiamo tirato su”. Inzuppato di sangue e di acqua di mare, rimasi in uno stato di semi-incoscienza per molto tempo, sul ponte della chiatta, a cinquantacinque piedi sopra il fondo dell’oceano, dove avevo fotografato un combattimento con uno squalo gigante. Il braccio telescopico con cui ero stato calato si era rotto nei pressi della chiatta quando la camera d’acciaio dentro la quale lavoravo colpì un cumulo di sabbia e vi si conficcò. Trainata dal nostro yacht, la chiatta si mosse, piegando il braccio telescopico al punto tale che tutti i tubi che convogliavano l’ossigeno finirono schiacciati, privandomi dell’aria. Sigillato in quella bara marina, telefonai freneticamente in superficie fornendo informazioni sulla mia situazione.

Durante quei terribili momenti in cui è stato necessario segnalare allo yacht di fermarsi, invertire la rotta, staccare i cavi e riattaccarli all’altra estremità del rimorchio, mi sono seduto notando il cambiamento di ossigeno nella mia minuscola cella e chiedendomi quanto a lungo avrebbe potuto vivere un uomo con l’ossigeno ancora a disposizione. I tormenti della pressione dell’aria, del caldo terribile e della posizione angusta cominciarono a farsi sentire. Rendendomi conto che la mia unica possibilità di sopravvivenza era rimanere vigile, ho lottato contro la debolezza che mi stava sopraffacendo, ponendo avidamente ascolto a qualsiasi suono che indicasse l’arrivo dei soccorritori. La mia mente, in una specie di agonia, seguiva i lenti movimenti di entrambe le barche, mentre stavo per asfissiare.

Invece di un segnale incoraggiante, un suono stridente e lacerante proruppe dall’alto nelle mie orecchie. L’acqua cominciò a versarsi sulla mia testa a secchiate. Quel torrente andò via via aumentando di volume. Immediatamente mi resi conto che il braccio telescopico si era rotto durante il tentativo di ripararlo e che la mia unica speranza era quella di uscire dalla quella camera [la photosphere – NdR] prima che si riempisse d’acqua. Non c’era alcuna scala. Allora mi arrampicai al’interno di quel camino d’acciaio, aggrappandomi alle sue giunture, mentre l’acqua mi respingeva indietro con forza crescente. Ne ho ingoiato ansimando mentre cercavo di respirare, lottando lungo quei cinquantacinque piedi di tubo pieno di acqua di mare, finché sembrò che i miei muscoli avrebbero presto smesso di rispondere ai miei frenetici sforzi. In quel momento di collasso, la mia testa sbucò improvvisamente sopra la superficie e raccolsi una boccata di aria pura. Ancora qualche secondo e la squadra di soccorso mi avrebbe portato in salvo.

[da New York Tribune, 18 novembre 1917] – Traduzione di Famedisud.it (Riproduzione riservata)

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L'illustrazione del New York Tribune che accompagnava l'articolo di Eugene Gaudio, 1917

L’illustrazione del New York Tribune che accompagnava l’articolo di Eugene Gaudio, 1917

A Camera Man’s Work on the Ocean Floor

This article is taken from a 1917 issue of the New York Tribune. Although the author does not mention the title of the underwater film, it is 20,000 Leagues Under the Sea (1916), directed by Stuart Paton and produced by Universal Studios and Williamson Submarine Film Corporation. Eugene Gaudio was on the ocean floor, locked in the steel ball set up for filming when something happened…

by Eugene Gaudio

“You’ve surely got nine lives, like a cat” said the director of a marine drama to me, when I have been resuscitated after my adventures in the bottom of the ocean. “We worked like fury but we didn’t expect to see you alive when we got you”. I lay, soaked with blood and sea water, in a state of semi-consciousness for a long time, on the deck of the barge, fifty-five feet above the ocean bed, where I have been photographing a combat with a giant shark. The telescope down which i had been lowered had broken close up to the barge when the steel chamber in which i worked struck a sand mound and stuck. Towed by our yacht, the barge moved on, bending the telescopic chimney so that all my tubes were squeezed, cutting off the air. Sealed in this marine coffin, I frantically telephoned up intelligence of my predicament.

During those terrible moments when the yacht had to be signalled to stop, reverse its course, cables detached and reattached to the other end of the tow, I sat noting the change of oxygen in my tiny cell, and wondering how long a man could live on the supply left me. The torments of air pressure, terrific heat and cramped position began to tell. Realizing that my only chance of life lay in alertness, I struggled against the faintness that was overcoming me, listening eagerly for any sound that would indicate the approach of rescuers. My mind followed, in agony, the slow movements of both boats, while I was being asphixiated.

Instead of a signal of relief a grinding, tearing sound frome above broke on my ears.Water began to pour on my head in bucketfuls. The torrent increased in volume. Instantly I realized that the telescope had broken in readjustement and that my only hope lay in getting out of my chamber before it filled with water. There was no ladder. I scrambled up that steel chimney, clinging to its joints, the water beating me back with increasing power. I swallowed it, gasping as I tried to breathe, battling up that fifty-five feet of ocean-filled tube, until it seemed my muscles would no longer respond to my frantic efforts. At that moment of collapse, my head suddenly shot above the surface and I caught a gasp of pure air. A second more, and the rescuing crew had lifted me to safety.

[from New York Tribune, November 18, 1917]  

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