Rinascimento in Calabria: focus sulla Madonna dell’Alica di Antonello Gagini

Antonello Gagini, Madonna dell’Alica, XVI secolo

di Pasquale Faenza*

Sempre più spesso, lo studio della statuaria in marmo rinascimentale preservatosi nell’estremo Sud della Calabria, continua ad offrire spunti d’indagine alla definizione del percorso artistico di un gran numero di scultori che, fin dalla seconda metà del Quattrocento, avevano eletto Messina quale luogo ideale per impiantare la propria bottega. A partire dalla seconda metà del XV secolo le politiche economiche aragonesi avevano contribuito a fare del porto zancleo uno dei più importanti snodi commerciali del Mediterraneo. La città dello Stretto era battuta da mercanti portoghesi, catalani, genovesi, fiorentini e veneziani. Nel porto confluivano le materie prime provenienti da tutta la Sicilia e dalle dirimpettaie terre calabresi, terre ricche di legname, pece e seta grezza.

Di questa felice stagione economica sono testimoni il gran numero di opere d’arte disseminate nelle due regioni, progressivamente incrementatosi nel corso del Cinquecento. Il contributo delle committenze calabresi agli sviluppi della scultura marmorea, prodotta a Messina nel tardo Rinascimento, noto attraverso l’infaticabile trascrizione dei documenti dell’archivio provinciale peloritano, prima che i bombardamenti del secondo conflitto mondiale ne decretassero la distruzione, era stato oggetto d’attenzione già da parte di Alfonso Frangipane, in diverse occasioni di studio, ma è nel suo censimento del patrimonio storico-artistico regionale che emergeva, chiara, la preponderante presenza di opere d’arte messinesi in Calabria.
 

Antonello Gagini, Madonna dell’Alica, Chiesa dello Spirito Santo, Pietrapennata di Palizzi (RC) – Ph. Pasquale Faenza

Il prosieguo degli studi, rinvigoritosi nell’ultimi cinquant’anni, ha tuttavia tracciato un panorama molto più complesso, caratterizzato da un pluralismo di tendenze culturali strettamente correlato alla geo-politica della Calabria dell’epoca, contrassegnata da piccoli feudi, vicinissimi alla corte partenopea, una serie di città libere, ma ugualmente subordinate alla casa regnate e una governance ecclesiastica, prevalentemente straniera, aggiornata ai gusti rinascimentali in voga nelle principali città della Penisola, Messina compresa. In particolare, l’esame offerto da Francesco Caglioti, nel 2002, ha gettato nuova luce sulla Calabria nel Rinascimento, per troppo tempo considerata una regione del tutto marginale del Regno di Napoli, giacché priva di significativi centri urbani in grado di generare espressioni locali. In un contesto culturale segnato prevalentemente da importazioni, Caglioti individuava degli episodi artistici che erano stati capaci ad influenzare non soltanto le committenze locali, ma persino gli stessi marmorari operosi a Messina fin dallo scadere del XV secolo.
 

Scorcio della diruta chiesa di S. Maria dell’Alica, Pietrapennata di Palizzi (RC) – Ph. Pasquale Faenza

La proposta – avanzata dal Caglioti e diffusamente condivisa – di un apprendistato, nella bottega fiorentina di Benedetto da Maiano, di Antonello Gagini, l’artista che maggiormente influenzò la scultura siculo-calabra del Rinascimento, insieme alla ricostruzione delle vicende che avevano indotto Marino Correale, maggiordomo della consorte del re di Napoli, Ferrante I, ad affidare allo stesso da Maiano la pala marmorea (1491-92) per il suo feudo calabrese di Terranova ed ancora una serie di precisazioni attributive a favore di maestri attivi tanto nella capitale partenopea quanto nella vicina Messina, hanno concorso ad assegnare alla Calabria della prima Età Moderna il ruolo di cerniera culturale tra la Sicilia e il resto della Penisola, anche grazie alla presenza di committenze ragguardevoli, di cui, solo di recente, la critica sta focalizzando l’incidenza sull’ambiente artistico locale. Purtroppo, la quasi totale mancanza di strumenti d’indagine, unita alla preponderante decontestualizzazione di gran parte del patrimonio storico-artistico regionale, non sempre consentono di ricostruire le dinamiche che hanno contribuito ad arricchire il Sud della Calabria di un così nutrito numero di sculture rinascimentali, né tanto meno aiutano a tratteggiare i lineamenti delle piccole, quanto interessanti, corti baronali sorte nel XV secolo in questa ultima propaggine dell’Appennino, ciclicamente segnata da catastrofi naturali e da interventi antropici altrettanto distruttivi.
 

Scorcio della diruta chiesa di S. Maria dell’Alica, Pietrapennata di Palizzi (RC) – Ph. Pasquale Faenza

Ne è testimone la statua a mezzo busto della Vergine con Bambino, oggi nella chiesa dello Spirito Santo di Pietrapennata di Palizzi (Reggio Calabria) ma in origine collocata nella vicina chiesa abbaziale dedicata alla Madonna dell’Alica, ubicata lungo l’antico percorso che collegava Palizzi Superiore al borgo di Staiti . Nella nuova sede la scultura giunse solo nel 1876, insieme al monumentale altare della prima metà del Seicento, la cui mensa fu impreziosita nel 1762 da un paliotto in pastiglia.
 

Particolare del paliotto in pastiglia, aggiunto nel 1762 alla seicentesca mensa d’altare 

Fino al secolo scorso, sul capo della Vergine e del Bambino si stagliavano due corone in argento della seconda metà del XVII secolo, una delle quali oggi esposta al Museo diocesana di Arte Sacra di Reggio Calabria.
 

Antonello Gagini, Madonna dell’Alica, XVI secolo – Ph. Pasquale Faenza

Una leggenda racconta che il busto della Madonna della Alica giunse miracolosamente nei pressi del casale di Pietrapennata su un carro di buoi, dopo che un battello, sul quale viaggiava l’opera, era approdato sulla costa di Palizzi. Stando a quanto tramandano le fonti, sarebbe stato un anonimo feudatario di Palizzi, a collocare la scultura nell’altare centrale della piccola abbazia di Santa Maria della Alica, di cui oggi rimangono dei suggestivi ruderi, dominati da un campanile cuspidato costruito con molta verosimiglianza nella prima metà del Seicento.
 

Veduta a volo d’uccello della chiesa di S. Maria dell’Alica, Pietrapennata di Palizzi (RC) – Ph. Pasquale Faenza

Già considerata di buona arte gaginesca, la Madonna della Alica era stata prima inclusa nel catalogo dello scultore fiorentino Benedetto da Maiano, per poi essere assegnata ad Antonello Gagini, con una datazione al primo decennio del Cinquecento. L’esecuzione raffinata del marmo, vicinissima ai modi di Benedetto da Maiano, così come la formula slanciata della figura, ma soprattutto la presenza dei putti reggi scudo, rispondenti a modelli impiegati da Antonello Gagini in altre sue opere siciliane dei primi del Cinquecento, aiuterebbero ritenere il mezzo busto di Palizzi un prodotto della prima attività messinese dello scultore palermitano. A conferma della datazione precoce dell’opera, a cavallo tra Quattro e Cinquecento, è la mia recente scoperta di tracce appena delineate dell’emblema dei Ruffo, all’interno dello stemma scolpito sul bordo dello scannello.
 

Dettaglio dello stemma sullo scannello della statua della Vergine. Tracce quasi impercettibili riportano al casato dei Ruffo – Ph. Pasquale Faenza

A commissionare l’opera sarebbe stato dunque Antonello Ruffo di Palizzi, ramo cadetto dei Ruffo Sinopoli. Nel 1472 Antonello Ruffo aveva perso le terre di Palizzi, assegnate al cognato Bernardino Maldà de Cadorna, in quanto, dopo la scomparsa senza eredi della moglie Beatrice, non aveva restituito alla famiglia d’origine la dote. Tuttavia già nel 1478 il feudatario era riuscito a riottenere i suoi possedimenti. La conferma di Palizzi e Brancaleone fu infatti validata dallo stesso Re, Federico I nel 1498, anno in cui Antonello il risulta sposato con Alfonsina Toraldo. Nel 1504 il signore di Palizzi dovette partecipare ad una nuova ribellione, visto che il Gran Capitano, Consalvo de Cordoba, diede il feudo ad Alfonso d’Aragona de Ayerbe, sposatosi nel 1500 con l’unica figlia di Antonello, Girolama. Ma ciò non bastò a fermare Antonello. Con l’avvento al trono di Ferdinando il Cattolico, nel 1507, il Ruffo riusciva ancora una volta a riavere il suo feudo, rimanendo signore di Palizzi e Brancaleone fino alla morte, sopraggiunta nel 1515. Le intricate vicende che interessarono il feudo Calabrese autorizzano a pensare che la Madonna dell’Alica sia state eseguita tra il 1498 e il 1504. A supporto della tesi il livello stilistico della scultura, ma soprattutto la sua vicinanza alla Madonna con Bambino di Nicotera, realizzata da Antonello Gagini nel 1498, e all’arte di Benedetto da Maiano, di recente identificato suo maestro.

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* Pasquale Faenza è storico dell’arte e restauratore
 
I LUOGHI | VIDEO: le rovine della Chiesa di Santa Maria dell’Alica a Pietrapennata 
 

 

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