Proverrebbe da Pietrapaola uno splendido elmo in bronzo custodito al Getty Museum

Elmo di tipo Calcidico, 350-300 a.C., Getty Museum, Los Angeles - Image by Getty's Open Content Program

Elmo greco di tipo calcidico, 350-300 a.C., Getty Museum, Los Angeles – Image by Getty’s Open Content Program

di Redazione FdS

La cronaca recente ha portato alla luce una storia ignota al pubblico e riguardante uno splendido reperto in bronzo custodito al Getty Museum di Malibu, in California, già al centro di numerosi casi di opere trafugate in Italia e finite nelle sue teche o sui suoi fastosi piedistalli. Si tratta di un elmo in bronzo di tipo calcidico del IV secolo a.C., proveniente dal Sud Italia, caratterizzato da una ricca decorazione che include una protome di grifone come cimiero, fiancheggiato sopra le orecchie da due alette nelle quali un dispositivo a molla è probabile sia servito in origine a trattenere dei pennacchi di piume. La parte frontale dell’elmo raffigura un diadema circondato da ciocche di capelli incise a sbalzo nel bronzo. Le paragnatidi (copri guancia), sebbene danneggiate, sono decorate con ciocche di barba e il profilo di un animale, forse una capra. Secondo gli studiosi che hanno catalogato l’oggetto per conto del museo, la sua ricca decorazione potrebbe verosimilmente suggerirne una funzione cerimoniale anziché un uso in battaglia. Si tratta – aggiungono – di una variante del tipo calcidese prodotta in Sud Italia: un tipo più leggero e meno ingombrante rispetto agli altri elmi greci, caratterizzato da paragnatidi con cerniera.
 

Visione laterale sinistra dell'elmo di tipo calcidese, 350-300 a.C., Getty Museum, Los Angeles

Visione laterale sinistra dell’elmo greco di tipo calcidese, 350-300 a.C., Getty Museum, Los Angeles

Ma veniamo alla cronaca. Di recente l’Operazione Achei, condotta dal 2017 sul territorio nazionale e in alcuni Paesi esteri dai Carabinieri del Comando Tutela patrimonio culturale, sotto la direzione della Procura della Repubblica di Crotone, ha portato all’esecuzione di 23 misure cautelari contro i presunti componenti di una holding criminale che gestiva un ingente traffico di beni archeologici, oggetto di scavi clandestini in Calabria e poi esportati illecitamente fuori dall’Italia. Tra le carte dell’inchiesta giunte all’attenzione dei media, è emerso come gli inquirenti abbiano assunto sommarie informazioni da Armando Taliano Grasso, noto archeologo e docente di topografia antica presso l’Unical, in merito a una testimonianza che lo studioso ha raccolto nel 1996 e che potrebbe verosimilmente riguardare proprio l’elmo esposto al Getty. Taliano Grasso ha riferito come in quell’anno, durante una campagna di scavi condotta a Strongoli (Crotone) in via Rosario, sia stato avvicinato da un uomo di nome “Luciano” il quale gli ha rivelato come qualche anno prima avesse trovato a Pietrapaola (Cosenza) – presso un sito brettio fortificato ubicato in località Cozzo Cerasello, noto allo studioso per averlo scoperto egli stesso – un elmo in bronzo con due alette ai lati e un grifo d’oro in cima.
 

Visione frontale dell'elmo di tipo calcidese, 350-300 a.C., Getty Museum, Los Angeles

Visione frontale dell’elmo di tipo calcidese, 350-300 a.C., Getty Museum, Los Angeles

Inutile dire che l’assenza di prove e quell’inconsueto elemento aureo lasciarono l’archeologo alquanto incredulo, almeno fino a quando non ebbe modo di vedere l’immagine di un elmo ampiamente corrispondente a quella descrizione in un articolo de La Repubblica del 24 novembre 2006, corredato di foto, nel quale si parlava di reperti clandestini finiti al Getty, alcuni dei quali nel frattempo restituiti all’Italia. E’ evidente quindi che l’Italia doveva aver rivendicato quel reperto, senza peraltro riuscire a farselo restituire, come dimostra il fatto che l’oggetto è ancora esposto nel museo americano. Quanto alla natura aurea del grifo, suppone Taliano Grasso, potrebbe essersi trattato di semplice bronzo dorato inducendo in errore lo scopritore. Certo i Carabinieri non hanno rinunciato a cercare elementi di prova nel corso degli anni e l’avvenuta identificazione del prezioso testimone, riconosciuto anche dall’archeologo (sarebbe un 56enne di Strongoli con precedenti penali per possesso illegale di reperti), potrebbe finalmente cambiare le carte in tavola fornendo quegli “elementi concreti” in assenza dei quali lo Stato Italiano non era a suo tempo riuscito a farsi restituire l’opera dal Getty Museum. Non resta dunque che seguire gli sviluppi ulteriori dell’inchiesta della Procura di Crotone. Si può infine notare un altro elemento (forse già considerato dagli inquirenti) che desta ulteriori interrogativi circa l’origine “dubbia” del reperto, e cioè il fatto che a venderlo al Getty, nel 1993, sia stata una nota galleria attiva a New York da lunghi anni e più volte finita all’attenzione degli inquirenti che si occupano di traffici internazionali di reperti, risultando che abbia trattato compravendite con alcuni famosi e discussi mercanti italiani e stranieri. Naturalmente senza solide prove è impossibile attribuire responsabilità di alcun genere a chicchessia.
 

Elmo greco di tipo calcidico (part. del cimiero in forma di grifo), 350-300 a.C., Getty Museum, Los Angeles

Elmo greco di tipo calcidico (part. del cimiero in forma di grifo), 350-300 a.C., Getty Museum, Los Angeles

AGGIORNAMENTO AL 21 OTTOBRE 2020

Sulla vicenda di questo reperto, lo scorso dicembre 2019 la Senatrice Margherita Corrado ha presentato una interrogazione parlamentare con risposta scritta rivolta al Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini, nella quale chiedeva, tra l’altro, di sapere quale fosse lo stato attuale delle trattative con il Getty Museum per la restituzione dell’elmo; se il Ministro in indirizzo non ritenesse opportuno e necessario, davanti a un eventuale ulteriore rifiuto del Getty Museum, riconoscere la proprietà italiana dell’elmo e disporne la restituzione, oltre a negare – come già fatto in passato – prestiti e collaborazioni scientifiche fino a quando il museo di Malibu non deciderà di soddisfare la richiesta delle autorità italiane. Nella risposta – dopo aver premesso che “il Ministero, attraverso il coordinamento del Comitato per il recupero e la restituzione dei beni culturali, conduce da alcuni anni una strategia complessiva, i cui tempi di attuazione devono necessariamente intendersi di medio e lungo periodo” e che “contemporaneamente, l’Amministrazione esercita un’intensa attività di diplomazia culturale” – si precisa che “un’eventuale richiesta dell’elmo dovrà essere circostanziata, nel rispetto delle norme nazionali e internazionali, da dati documentari oggettivi e non potrà in nessun caso fare riferimento esclusivamente a generiche testimonianze verbali” e che “proprio per questo motivo la Direzione generale Archeologia belle arti e paesaggio in collaborazione con il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale ha avviato da alcuni mesi una verifica presso i propri uffici periferici volta all’accertamento delle modalità di uscita dell’oggetto dal territorio nazionale.”. Insomma la vicenda è ancora in alto mare, quindi non rimane che sperare in nuovi significativi sviluppi.

Alcune riflessioni:

Muovendo da questo caso, cogliamo l’occasione per fare alcune riflessioni su una serie di affermazioni di principio contenute nella menzionata risposta ministeriale e che sembrano stridere con le suddette dichiarazioni di intenti. Il primo punto è quello in cui si afferma che il Ministero “procede all’individuazione dei reperti italiani all’estero, alla raccolta delle prove di un eventuale trafugamento e alla valutazione della solidità probatoria, dell’interesse scientifico e del valore identitario”. Ebbene, chi si arrogherebbe il compito di escludere eventualmente il valore identitario di un reperto che, in quanto proveniente da un dato territorio, è identitario nei fatti? Il secondo punto che non convince è quello in cui, buonisticamente, si afferma che “il recupero internazionale dei reperti non deve intendersi come un atto punitivo, ma come uno strumento strategico per deprimere il mercato illecito di beni archeologici, dal quale deve discendere una generale presa di coscienza degli errori commessi in passato…”. A tal proposito, se è chiaro che all’Italia interessa scoraggiare il traffico illecito di reperti, non si vede perché si debba annullare la valenza anche sanzionatoria delle rivendicazioni, visto che ci troviamo di fronte a ipotesi di veri e propri reati perseguiti nel nostro Paese dal Codice Penale. Il terzo punto è quello in cui si dichiara che “le rivendicazioni non possono essere massive né occasionali” perché “privare simultaneamente i musei esteri di quei reperti non porterebbe alcun vantaggio culturale e non consentirebbe di provvedere adeguatamente non solo alla valorizzazione ma addirittura alla conservazione degli oggetti”. Ebbene, se ha una sua logica la necessità che la rivendicazione di un reperto debba essere adeguatamente argomentata, una volta soddisfatta questa conditio non ci sono ragioni plausibili per cui lo Stato non possa avanzare le sue pretese con ogni mezzo giuridico e senza troppi riguardi nei confronti di istituzioni culturali spesso poco scrupolose nel fare le dovute verifiche prima di procedere agli acquisti di oggetti antichi.

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