Pitta ‘mpigliata: un dolce calabrese ”leggendario”

Pitta 'mpigliata - Ph. © Anna Laura Mattesini

Pitta ‘mpigliata – Ph. © Anna Laura Mattesini

di Anna Laura Mattesini

Qualcuno vorrebbe farne derivare il nome dal latino picta (ossia ‘dipinta’, ‘ornata’) quale allusione a certe tipologie di focacce decorate offerte in dono agli dei nei templi pagani, altri più plausibilmente lo vogliono derivante dal greco ‘pita’ (πίτα) termine generico che indica per lo più un tipo di pane schiacciato e rotondo – a base di farina di grano, usato in Grecia ma noto in tutto il Mediterraneo anche con altri nomi – nonché alcune varietà di torte. Mi riferisco alla pitta ‘mpigliata, dolce caratteristico del paese silano di San Giovanni in Fiore (Cosenza) ma diffuso anche in altre zone della Calabria con piccole variazioni sulla forma più che sul contenuto e qualche variante nel nome, come quella di pitta ‘nchiusa che troviamo nel crotonese. Preparato soprattutto nel periodo natalizio, non manca di comparire sulla tavola anche in altre occasioni festive. Si prepara con i frutti raccolti in autunno, quali noci, mandorle, pinoli, uvetta, fichi secchi, uniti dal miele e racchiusi in una striscia di pasta ripiegata e poi arrotolata su se stessa a formare una sorta di spirale. Solitamente si realizza un certo numero di queste spirali riunite su una sfoglia, della stessa pasta, che le contiene. Esiste tuttavia anche la variante a spirale unica, che occupa cioè l’intero stampo nel quale la si inforna.

La più antica testimonianza sulla pitta ‘mpigliata che si conosce risale al ‘700 ed è quella di un accordo matrimoniale col quale i genitori della sposa convenivano che il promesso sposo si occupasse del banchetto nuziale e che, alla fine di questo, dovesse essere servita appunto ”la pitta ‘mpigliata”. Tuttavia, come già si ritiene per altri dolci i cui principali ingredienti siano miele d’api, frutta secca, vino o mosto cotto, è molto probabile che anche in questo caso le origini si debbano far risalire al periodo-precristiano e, per la precisione, a quella categoria di dolci votivi offerti nei templi della Magna Grecia, soprattutto in omaggio alle divinità femminili, di cui fanno menzione antiche fonti storico-letterarie. Non è forse un caso che a Crotone, anticamente sede del famoso tempio di Hera Lacinia, meta di pellegrinaggi e di offerte da tutto il Mediterraneo, la nostra pitta venga da taluno definita anche Pitta della Madonna il cui culto, con l’avvento del Cristianesimo, soppiantò quello della dea pagana. Affascinata da questa ipotesi, e prima di darvi la ricetta della Pitta ‘mpigliata, ho deciso di vestire per un attimo i panni della mitografa e di raccontarvi una leggenda che ho scelto di ambientare nell’antica e celebre città magno-greca di Sibari: la leggenda di Diodoro e Daphne.

Nell’antica colonia di Sibari viveva Diodoro, giovane ed indomito combattente, che amava, ricambiato, Daphne, bella e splendente come e più del Sole. Dell’aitante Diodoro era tuttavia innamorata anche la dea Athena, che tentò in ogni modo di conquistare il cuore del guerriero: gli propose l’invincibilità, ma lui rispose che sarebbe stato più eroico morire in guerra. Gli offrì la forza sovrumana, ma lui disse di preferire il combattimento alla pari, dove l’intelligenza sovrasta la forza. Gli porse l’eterna giovinezza, ma lui replicò che avrebbe voluto invecchiare serenamente accanto alla sua amata Daphne. Allora, in preda alla rabbia e alla gelosia, Athena fece costruire da Dedalo un labirinto nel mezzo delle intricate foreste della Sila e vi rinchiuse Diodoro, dichiarando che non lo avrebbe liberato se non avesse corrisposto il suo amore. Daphne, disperata, si rivolse alla dea Afrodite, al cui culto era votata, chiedendole di aiutarla. La dea le rispose che i delicati equilibri esistenti tra gli dei dell’Olimpo non potevano essere sconvolti per favorire gli esseri umani e che avrebbe potuto intervenire solo in piccola parte. Le propose di trasformarla in colomba, per poter volare sopra il labirinto fino a raggiungere Diodoro e portargli conforto. Daphne accettò, ma la cosa non era sfuggita ad Athena, che mandò un’aquila a sorvolare il luogo.

Ogni volta che la colomba tentava di avvicinarsi, l’aquila si gettava in picchiata per ghermirla e la colomba era costretta a fuggire via. L’unica cosa che riusciva a fare era gettare allo sventurato Diodoro una noce, o un chicco d’uva, o uno spicchio d’arancia, o una goccia di miele. Tuttavia, nei suoi voli, Daphne riuscì a memorizzare il percorso del labirinto, vedendolo dall’alto. Così chiese ad Afrodite di trasformarla nuovamente, ma questa volta in una insospettabile lumachina. Sotto queste spoglie riuscì ad entrare nel labirinto e lentamente, faticosamente, raggiunse il centro, ove Diodoro era prigioniero. Ma anche stavolta Athena scoprì l’inganno e ogni qualvolta la lumachina si avviava lasciando dietro di sé un scia di bava argentea, a segnare il percorso da seguire, dall’alto piombava l’aquila ad impedirle ogni movimento. I due giovani disperati ed allo stremo delle forze si preparavano alla fine, quando Diodoro scorse un bagliore: un raggio di sole si rifletteva sul disegno a spirale di una conchiglia di dura e lucida madreperla che Afrodite aveva nascosto nottetempo nell’intrico di rovi; il giovane la raccolse e la pose a protezione sulla lumachina, che ne sopportò agevolmente il leggero peso e si incamminò con le ultime forze rimaste. L’aquila tentò più volte di forare il guscio, ma non vi riuscì e i due giovani arrivarono all’uscita del labirinto. Athena accettò la sconfitta, perché anche gli dei, a volte, perdono. Diodoro e Daphne raccolsero così i simboli della prigionia creando una dolce spirale di pane, farcita di frutta secca, miele, agrumi, che dedicarono alla dea Afrodite per ringraziarla del suo intervento. Così nacque la pitta ‘mpigliata o pitta ‘nchiusa.
 

Pitta 'mpigliata

Pitta ‘mpigliata

Per realizzare la pitta ‘mpigliata la ricetta è la seguente:

Per la pasta

1 bicchiere di olio extra vergine di oliva,
1 bicchiere di moscato,
2 uova,
½ kg. di farina,
½ bustina di lievito per dolci.

Per il ripieno

250 g di frutta secca tritata (noci, nocciole, pinoli, mandorle, fichi),
100 g di uva passa ammollata,
la scorza grattugiata di un’arancia, o 50 g di arancia candita tritata
250 g di miele d’api,
un pizzico di cannella,
qualche chiodo di garofano,
zucchero (facoltativo) se si preferisce più dolce.

Preparazione:

Intiepidire l’olio e il vino, aggiungere le uova e la farina setacciata con il lievito. Si deve ottenere un impasto piuttosto sodo da lasciare riposare coperto per un paio d’ore.

Intanto preparare il ripieno amalgamando la frutta secca tritata al miele sciolto in un pentolino con la cannella e i chiodi di garofano polverizzati nel mortaio.

Stendere l’impasto per ottenere una striscia rettangolare piuttosto lunga (l’ideale è usare una comune sfogliatrice manuale a manovella da tavolo) e sufficientemente larga per poter contenere il ripieno. Farcire la striscia con il ripieno preparato ripiegandola (senza sigillarla) per il lungo e poi arrotolandola su se stessa a spirale, lasciando la parte aperta verso l’alto. Fermare il rotolo legandogli intorno uno spago da cucina. Sistemare la spirale nello stampo e cuocere a 180° per 1 ora e ½. Questa è la versione meno laboriosa della pitta ‘mpigliata perché prevede una forma a spirale unica. L’altra versione è quella ottenuta realizzando 7 strisce di pasta più corte che, dopo essere state farcite col ripieno ed arrotolate a spirale, verranno disposte, una accanto all’altra, su un disco della stessa pasta, e infornate.

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