La Festa dei Morti: la Sicilia “gotica” di Giovanni Verga in una novella tratta da “Vagabondaggio”

di Redazione FdS

Mentre opportunamente infuria la polemica perchĂ© da cinque anni una folta schiera di poeti e scrittori meridionali del Novecento – da Quasimodo a Sciascia, ad Alvaro, a Silone, e via dicendo – è stata cancellata dai programmi della scuola italiana ed è ormai ridotta ad un gruppo di fantasmi, noi vi proponiamo altri “fantasmi” letterari, quelli ottocenteschi di un grande scrittore siciliano come Giovanni Verga, celebre autore de I Malavoglia, considerato il maggior esponente della corrente letteraria del Verismo. Di questo autore vi presentiamo la versione integrale di una novella, La Festa dei Morti, che per la sua forte componente fantastica si discosta dal Verga piĂą consueto. Il racconto, ambientato su un litorale catanese a tinte fosche, propone atmosfere degne della migliore letteratura “gotica” europea, rese con un linguaggio di straordinaria potenza visiva. La Festa dei Morti fa parte della raccolta di 12 novelle che va sotto il titolo di Vagabondaggio: pubblicate a Firenze nel 1887, queste novelle sono, a vario modo, una rievocazione del mondo agricolo siciliano, nel quale la monotonia dell’esistenza porta talvolta a considerarla come un percorso incessante e doloroso, un cammino di cui il titolo della raccolta sembra farsi metafora. Ne La Festa dei Morti, in realtĂ  non c’è nulla di festoso, sebbene in Sicilia, questa ricorrenza – presente in tutto il mondo cristiano e retaggio di antichi culti pagani – abbia normalmente connotati di letizia essendo le anime dei morti protagoniste di un ”ritorno a casa” che ha nell’accoglienza e nella memoria da parte dei vivi i suoi punti di forza. Al contrario nel racconto di Verga, ambientato in luoghi reali, protagoniste sono alcune anime dimenticate a cui non rimane neppure quell’unico pietoso conforto.

LA FESTA DEI MORTI*

di Giovanni Verga

Nella collina solitaria, irta di croci sull’occidente imporporato, dove non odesi mai canto di vendemmia, né belato d’armenti, c’è un’ora di festa, quando l’autunno muore sulle aiuole infiorate, e i funebri rintocchi che commemorano i defunti dileguano verso il sole che tramonta. Allora la folla si riversa chiassosa nei viali ombreggiati di cipressi, e gli amanti si cercano dietro le tombe.

Ma laggiù, nella riviera nera dove termina la città, c’era una chiesuola abbandonata, che racchiudeva altre tombe, sulle quali nessuno andava a deporre dei fiori. Solo un istante i vetri della sua finestra s’accendevano al tramonto, quasi un faro per i naviganti, mentre la notte sorgeva dal precipizio, e la chiesuola era ancora bianca nell’azzurro, appollaiata come un gabbiano in cima allo scoglio altissimo che scendeva a picco sino al mare. Ai suoi piedi, nell’abisso già nero, sprofondavasi una caverna sotterranea, battuta dalle onde, piena di rumori e di bagliori sinistri, di cui il riflusso spalancava la bocca orlata di spuma nelle tenebre.
 

Jean-Pierre Houël - Chiesa Salvator Mundi, Catania, luogo reale, ormai sparito, di ambientazione della novella di Verga - 1770, Louvre, Paris

Jean-Pierre HouĂ«l – Chiesa Salvator Mundi, Catania, luogo reale – ormai sparito – di ambientazione della novella di Verga – 1770, Louvre, Paris

Narrava la leggenda che la caverna sotterranea, per un passaggio misterioso, fosse in comunicazione colla sepoltura della chiesetta soprastante; e che ogni anno, il dì dei Morti – nell’ora in cui le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti – un prete sepolto da cent’anni nella chiesuola abbandonata, si levasse dal cataletto, colla stola indosso, insieme a tutti gli altri che dormivano al pari di lui nella medesima sepoltura, colle mani pallide in croce, e scendessero a convito nella caverna sottostante, che chiamavasi per ciò «la Camera del Prete». Dal largo, verso Agnone, i naviganti s’additavano l’illuminazione paurosa del festino, come una luna rossa sorgente dalla tetra riviera.
 

Cripta dei Cappuccini, Palermo

Cripta dei Cappuccini, Palermo

Tutto l’anno, i pescatori che stavano di giorno al sole sugli scogli circostanti, con la lenza in mano, non vedevano altro che lo spumeggiare della marea, quando s’internava muggendo nella «Camera del Prete», e il chiarore verdognolo che ne usciva colla risacca; ma non osavano gettarvi l’amo. Un palombaro che s’era arrischiato a penetrarvi, nuotando sott’acqua, uno che non badava né a Dio né al diavolo, pel bisogno che lo stringeva alla gola, e i figliuoli che aspettavano il pane, aveva visto il chiarore ch’era lì dentro, azzurro e ondeggiante al pari di quei fuochi che s’accendono da sé nei cimiteri, il pietrone liscio e piatto, come una gigantesca tavola da pranzo, e i sedili di sasso tutt’intorno, rosi dall’acqua, e bianchi quali ossa al sole. L’onda che s’ingolfava gorgogliando nella caverna, scorreva lenta e livida nell’ombra, e non tornava mai indietro; come non tornò più quel poveretto che s’era strascinato via. L’estate, nell’ora in cui ogni piccola insenatura della riva risonava della gazzarra dei bagnanti, l’onda calma scintillava, rotta dalle braccia di qualche ragazzo che nuotava verso le sottane bianche, formicolanti come fantasmi sulla spiaggia.
 

Così quel prete, un sant’uomo, aveva perso l’anima e la ragione dietro i fantasmi delle terrene voluttà, il giorno in cui Lei – la tentazione – era venuta a confessargli il suo peccato, nella chiesetta solitaria ridente al sole di Pasqua, col seno ansante e il capo chino, su cui il riflesso dei vetri scintillanti accendeva delle fiamme impure. Da cent’anni le sue ossa, consunte dal peccato, posavano nella fossa, stringendosi sul petto la stola maculata. Ivi non giungevano gli strilli provocanti delle ragazze sorprese nel bagno, né il canto bramoso dei giovani, né le querele delle lavandaie, né il pianto dei fanciulli abbandonati. La luna vi entrava tacita dallo spiraglio aperto nella roccia, e andava a posarsi, uno dopo l’altro, su tutti quei cadaveri stesi in fila nei cataletti, sino in fondo al sotterraneo tenebroso, dove faceva apparire per un istante delle figure strane. L’alba vi cresceva in un chiarore smorto, che al fuggire delle ombre sembrava far correre un ghigno sinistro sulle mascelle sdentate. Il giorno lungo della canicola indugiava sotto le arcate verdognole, con un brulichìo furtivo di esseri immondi in mezzo all’immobilità di quei cadaveri.

Erano defunti d’ogni età e d’ogni sesso: guance ancora azzurrognole, come se fossero state rase ieri l’ultima volta, e bianche forme verginali coperte di fiori; mummie irrigidite nei guardinfanti rigonfi, e toghe corrose che scoprivano tibie nerastre. Dallo spiraglio aperto nell’azzurro entravano egualmente il soffio caldo dello scirocco, e i gelati aquiloni che facevano svolazzare come farfalle di bruchi le trine polverose e i riccioloni cadenti dai crani gialli. I fiori, già secchi di lagrime, si agitavano pel sotterraneo, come vivi, e andavano a posarsi su altre labbra rose dal tempo; e appena il vento sollevava i funebri lenzuoli, stesi da mani smarrite d’angoscia su caste membra amate, occhi inquieti di rettili immondi guardavano furtivi nelle ossa nude.
 

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Faraglioni di Aci Trezza (Catania) – Ph. Malega | CCBY-ND2.0

Poscia, nell’ore in cui il sole moriva sull’orlo frastagliato dello spiraglio, il ghigno schernitore di tutte le cose umane sembrava allargarsi sui teschi camusi, e le occhiaie vuote farsi più nere e profonde, quasi il dito della morte vi avesse scavato fino alla sorgente delle lagrime. Là non giungeva nemmeno il mormorio delle preci recitate all’altare in suffragio dei defunti che dormivano sotto il pavimento della chiesuola, e i singhiozzi dei parenti non passavano il marmo della lapide. Le raffiche delle notti di fortuna scorrevano gemendo sulla casa dei morti, senza lasciarvi un pensiero per coloro che in quell’ora erravano laggiù, pel mare tempestoso, coi capelli irti d’orrore al sibilo del vento nel sartiame; né un senso di pietà per le povere donne che aspettavano sulla riva, sferzate dal vento e dalla pioggia; né un ricordo delle lagrime che videro forse, nell’ora torbida dell’agonia, e che bagnarono quegli stessi fiori che adesso vanno da una bara all’altra, come li porta il vento. Così le lagrime si asciugarono dietro il loro funebre convoglio; e le mani convulse che composero nella bara le loro spoglie, si stesero ad altre carezze; e le bocche che pareva non dovessero accostarsi ad altri baci, insegnano ora sorridendo a balbettare i loro nomi ai bimbi inginocchiati ai piedi dello stesso letto, colle piccole mani in croce, perché i buoni morti lascino dei buoni regali ai loro piccoli parenti che non conobbero. Tanto tempo è passato, insieme alle bufere della notte, e al soffio d’aprile, con le ore che suonano uniformi e impassibili anch’esse sul campanile della chiesuola, sino a quella del convito!

A quell’ora tutti gli scheletri si levano ad uno ad uno dalle bare tarlate, coi legacci cascanti sulle tibie spolpate, colla polvere del sepolcro nelle orbite vuote, e scendono in silenzio nella «Camera del Prete», recando nelle falangi scricchiolanti le ghirlande avvizzite, col ghigno beffardo di tutte le cose umane nelle bocche sdentate.
 

Teschi - Ph. © Augusto De Luca

Teschi – Ph. © Augusto De Luca

Più nulla! più nulla! – Né la tua treccia bionda, che ti cade dal cranio nudo. – Né i tuoi occhi bramosi, pei quali egli sfidò il disonore e la morte, onde portarti il bacio delle labbra che non ha più. Ti rammenti, i baci insaziati che dovevano durare eterni? – E neppure i morsi acuti della gelosia, il delirio sanguinoso che mise in mano a quell’altro l’arma omicida. – Né le lagrime che si piangevano attorno a quel letto, e quel morente voleva stamparsi negli occhi dilatati dall’agonia. – Né le ansie delle notti vegliate in quella stanza già funebre, in quell’attesa già disperata. – Né le carezze con cui il caro bimbo pagava il latte di quel seno e i dolori di quella maternità. – E neppure le lotte in cui l’uno si è logorato. – Né le speranze che hanno accompagnato l’altro sin là. – Né i fiori del campo per cui si è tanto sudato. – Né i libri sui quali si è vissuto tanta e tanta vita. – Né la bestemmia del marinaio che stringe ancora le alghe secche nelle falangi contratte. – Né la preghiera del prete che implora il perdono dei falli umani. – E non l’azzurro profondo del cielo tempestato di stelle; né il tenebrore vivente del mare che batte allo scoglio. – L’onda che s’ingolfa gorgogliando nella caverna sotterranea, e scorre lenta e livida sulla «Tavola del Prete» si porta via per sempre le briciole del convito, e la memoria di ogni cosa.

Ora nel costruire la diga del molo nuovo, hanno demolito la chiesuola e scoperchiano la sepoltura. La macchina a vapore vi fuma tutto il giorno nel cielo azzurro e limpido, e l’argano vi geme in mezzo al baccano degli operai. Quando rimossero l’enorme pietrone posato a piatto sul piedistallo di roccia come una tavola da pranzo, un gran numero di granchi ne scappò via, e quanti conoscevano la leggenda, andarono narrando che avevano visto lo spirito del palombaro ivi trattenuto dall’incantesimo. Il mare spumeggiante sotto la catena dell’argano tornò a distendersi calmo e color del cielo, e scancellò per sempre la leggenda della «Camera del Prete».

Nel raccogliere le ossa del sepolcreto per portarle al cimitero, fu una lunga processione di curiosi, perché frugando fra quegli avanzi, avevano trovato una carta che parlava di denari, e molti pretendevano di essere gli eredi. Infine, non potendo altro, ne cavarono tre numeri per il lotto. Tutti li giocarono, ma nessuno ci prese un soldo.

*Novella tratta dalla raccolta Vagabondaggio, in Giovanni Verga, Tutte le novelle, ed. Mondadori, Milano, 2015
 

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