I marmi di Garaguso e il giallo della loro scoperta nei primi del Novecento

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Basilicata – Tempietto e dea in trono, da Garaguso (Matera), 480-470 a.C. – Museo Archeologico Provinciale di Potenza

di Angela Capurso

Si cercano cose che poi, alla fine, ci sono. È la lezione di Schliemann, che diceva di sapere dove cercare Troia. E alla fine, c’era davvero. Gli archeologi e i detective hanno questo in comune, dice C. W. Ceram in un libro che ha fatto il giro del mondo (I detectives dell’archeologia) : si imbattono dinanzi ad un fatto ignoto e cercano di ricostruire il passato attraverso l’intuito e l’analisi delle tracce del passato, l’uno di due millenni, l’altro di due giorni, ma il metodo non cambia.
Da Garaguso proviene uno dei più preziosi manufatti marmorei greci della Basilicata, esposto sin dal 1921 al Museo Archeologico Provinciale di Potenza. Si tratta del tempietto e della statuetta di dea seduta in trono, di cui non si poteva asserire con precisione “dove, quando e in quali circostanze furono ritrovati”; di certo, entrarono a far parte del patrimonio museale della collettività lucana non come rinvenimento fortuito, ma da uno scavo mai documentato, condotto in epoca genericamente imprecisata “tra il 1915 e il 1918” da Vittorio Di Cicco, Ispettore dei monumenti e degli scavi del mandamento di San Mauro Forte dal 1891. Non è certo per voler attenuare le responsabilità e la negligenza dei funzionari, tuttavia, trascurare la documentazione di scavo con dovute relazioni o, meglio, con saggi e articoli scientifici, era una pratica diffusa un po’ dappertutto all’epoca.

La copertina del libro di Jean-Marc Moret

La copertina del libro di Jean-Marc Moret

La ricostruzione filologica della complessa vicenda della scoperta avvenuta in realtà nella primavera del 1916 nella Vigna Manzi e di cui erano ignote tutte le circostanze, con un corredo di 237 documenti d’archivio, lettere, disegni e fotografie, è contenuta nel libro di Jean-Marc Moret, I marmi di Garaguso. Vittorio Di Cicco e l’imbroglio della loro scoperta (Venosa, Osanna, 2014) con la collaborazione di Domingo Gasparro. Nel delineare un acuto e sorprendente profilo dell’archeologo lucano, animato da passione così tenace da non far avvertire la mancanza di titoli accademici, l’autore scrive una pagina inedita della storia postunitaria della ricerca archeologica in Basilicata. Oltre a San Mauro Forte e Garaguso e alle collaborazioni con Domenico Ridola nel Materano e Quintino Quagliati in Puglia, al Di Cicco si devono gli scavi di Croccia Cognato (Oliveto Lucano) per un impegno che durò dal 1891 al 1935.

Che il “misero comunello” – come egli definì Garaguso, nella sua prima comunicazione, fugace e ambigua, a Paolo Orsi – fosse uno scrigno di somma importanza per l’indagine archeologica sarebbe stato meglio tacerlo: la notizia più “prudentemente” doveva passare in sordina, per proteggere il territorio dagli appetiti scientifici esterni e sventare il trasferimento dei materiali in altri musei, come Taranto e Reggio Calabria. Gli “archeologi del piccone”, in polemica con gli storici accademici, reagivano alla condizione di sussidiarietà dell’archeologia come modesta ancella della storia, volendo testimoniare che il successo di un’impresa archeologica dipendesse dal fatto materiale dello scavo, piuttosto che dalla dottrina e dall’esegesi delle fonti. Istanza legittima, purché all’attività di scavo segua – oggi come ieri – in tempi brevi la pubblicazione.

Quella netta separazione nella storia della disciplina si coglie in tutta la sua portata in un recente saggio di Vittorio Bracco, La lunga illusione dell’archeologia, Castelvecchi, 2014: le premesse di molte delle scelte e degli indirizzi dell’”archeologia del piccone” si individuano chiaramente nella cultura positivistica dell’ Italia liberale, tra la fine del secolo XIX e la I Guerra Mondiale, anni ricchi di scoperte per l’area lucana, per poi piegarsi, a partire dal 1922, ad assecondare un massiccio condizionamento politico.

A Jean-Marc Moret si deve il merito di aver ricostruito l’esatta dinamica degli eventi con un racconto che non si sottrae al fascino della detective story – dall’efficacia di una prosa argomentativa essenziale, agli elementi che connotano le caratteristiche del genere, la dissimulazione, i depistaggi, le perizie grafologiche – e di aver contribuito, con una microstoria paradigmatica e illuminante, a rivelare le criticità storiche della ricerca archeologica in Italia, ancor più se proiettata alle nostre ore e latitudini, complici i tagli economici e il disorientamento nell’ambito delle competenze da riservare al settore pubblico.

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