Giacomo Leopardi, Napoli e “La Ginestra” o “Il fiore del deserto”

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Campania - Villa Carafa-Ferrigni, nota come Villa delle Ginestre, Torre del Greco (Napoli) - Ph. Sergio Izzo | CCBY-SA4.0

Campania – Scorcio di Villa Carafa-Ferrigni, nota come Villa delle Ginestre, Torre del Greco (Napoli) – Ph. Sergio Izzo | CCBY-SA4.0

«…tutta la vita s’era concentrata nella dolcezza del suo sorriso»
Francesco De Sanctis

di Carlo Picca

Il poeta Giacomo Leopardi, in un dipinto di A. Ferrazzi, 1820, Casa Leopardi, Recanati (Macerata)

Il poeta Giacomo Leopardi, in un dipinto di A. Ferrazzi, 1820, Casa Leopardi, Recanati (Macerata)

Nell’ottobre del 1833 il celebre poeta marchigiano Giacomo Leopardi, assieme al suo carissimo e fidato amico partenopeo Antonio Ranieri, si trasferisce a Napoli. Le sue condizioni di salute stanno peggiorando ed il clima della vivace città campana così come il calore umano dei suoi abitanti possono essere delle ottime medicine, e per quel che potranno – dato il suo grave stato di salute – lo saranno sia in termini fisici che spirituali, rendendogli meno amari i suoi ultimi anni di vita. Non sarà neanche un caso che da questo momento, fino alla morte del poeta, saranno concepiti probabilmente alcuni fra i suoi canti più illuminati come il Tramonto della Luna e La ginestra.

Il 2 Ottobre 1833 quindi, Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri, giungono a Napoli. Qui sono ospiti in un primo momento della famiglia Ranieri. Nel tempo poi Leopardi abiterà a Napoli in diversi appartamenti, sebbene il cambio di alloggio non fosse cosa agevole da farsi. Dapprima scese a Via S. Mattia 88, poi nel dicembre 1833 traslocò in un appartamento di tre locali al Vomero, sotto la Certosa di San Martino, nel Palazzo Cammarota, e ancora nel maggio 1835 prese in affitto un appartamento nel Quartiere Stella, al numero 2 di Vico Pero.

Scriveva al padre che “la dolcezza del clima, le bellezze della città e l’indole amabile e benevola degli abitanti mi riescono assai piacevoli”. Napoli, con la sua creatività ed i suoi mille colori paiono un toccasana e molta gioia prova il poeta nel passeggiare per le strade della città. Giacomo è attratto emotivamente da questa realtà, trova piacere e conforto nel perdersi tra la gente ed i profumi della città, come quello irresistibile di sfogliatelle saporite appena sfornate, fra le urla dei commercianti che propongono la loro mercanzia, e ama perdersi non poco nei vicoli della città vecchia dove pizzaioli preparano pizze succulente e le massaie sono sempre intente a cucinare qualcosa che stuzzica l’appetito.

La tomba di Leopardi, Parco Vergiliano, Napoli - Image source

La tomba di Leopardi, Parco Vergiliano, Napoli – Image source

A Napoli il poeta ama così passeggiare e perdersi nei quartieri popolari affollati incontrando sovente personaggi d’ogni genere. Questa esultanza di umanità, di chiassosità popolana affascinano oltre modo Leopardi, fino al punto da non sottrarsi non solo al gioco del lotto, ma anche alla bizzarrìa di indicare un numero fortunato a qualcuno dei passanti che, considerando i gobbi di buon auspicio, glielo chiede. Ogni tanto si porta da solo nei più celebri caffè della città, dove sono solite tenersi le riunioni degli intellettuali e dei creativi artisti napoletani.

Ranieri mal sopporta questo suo amore per la città e i suoi abitanti, al punto che questo desiderio del poeta di andare in giro da solo gli procura una strana forma di gelosia. All’inizio del 1836, purtroppo, lo stato di salute di Giacomo peggiora sempre di più, finché nel 1837 le sue condizioni si fanno critiche. Leopardi non può né scrivere né leggere, mangia poco e su generosa proposta del cognato di Antonio Ranieri, Giuseppe Ferrigni, accetta di buon grado di trasferirsi nella sua casa di campagna a Torre del Greco, alle pendici del Vesuvio. Sul colle che sovrasta Pietrarsa, si trova la villa che, costruita alla fine del ‘600, tra il 1836 e il 1837 ospita Leopardi, Ranieri e sua sorella Paolina (si chiamava come la sorella dello stesso Leopardi) che aveva preso a cuore le sorti del poeta al punto da trasferirsi a coabitare con i due.

Il Vesuvio visto da Torre del Greco (Napoli) - Ph. Carlo Mirante | CCBY2.0

Il Vesuvio visto da Torre del Greco (Napoli) – Ph. Carlo Mirante | CCBY2.0

Vivendo fra Torre del Greco e Torre Annunziata, ai piedi del Vesuvio, Giacomo rimane attratto e stimolato da questa arida schiena del formidabil monte Sterminator Vesevo. Il poeta muore il 14 giugno del 1837 e viene seppellito a Napoli. La tomba del poeta di Recanati, viene collocata, assieme alla Tomba di Virgilio, presso il Parco Vergiliano a Piedigrotta, poco a più a nord della chiesa di Santa Maria di Piedigrotta, ai piedi della Galleria Laziale, nei pressi dell’attuale edificio della stazione metropolitana di Napoli-Mergellina.

Epigrafe sepolcrale per Giacomo Leopardi, 1844, Parco Vergiliano, Napoli - Ph. Sergio Izzo | CCBY-SA4.0

Epigrafe sepolcrale per Giacomo Leopardi, 1844, Parco Vergiliano, Napoli – Ph. Sergio Izzo | CCBY-SA4.0

Alle falde del Vesuvio quindi, in una splendida posizione panoramica dominata da un lato dalla possenza del vulcano e dall’altro dal Golfo di Napoli, sopravvive ancora Villa delle Ginestre, la dimora rustica che vide ospite l’illustre poeta. L’edificio è caratterizzato da una semplice planimetria a pianta quadrata, sviluppata su due livelli. Nel 1907 fu aggiunto su tre lati un portico, di impronta architettonica neoclassica, con colonne doriche sulle quali poggia una enorme e panoramica terrazza. Dopo il recente restauro, la villa è oggi affidata all’Ente delle Ville Vesuviane ed è scenario di eventi culturali, di promozione letteraria e di celebrazione dell’opera di Giacomo Leopardi. E’ infatti aperta al pubblico dal martedì alla domenica dalle ore 10,00 alle ore 13,00 e qualora i gruppi lo richiedono sono previste aperture straordinarie (è chiusa tutti i lunedì, il 15 agosto, il 24, 25 e 31 dicembre e l’1 gennaio).

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO

Probabilmente nessuno tra i classici della letteratura italiana ha il potere di coinvolgere ancor oggi il lettore quanto Leopardi con i suoi Canti, uno dei quali è proprio La Ginestra o Il fiore del deserto, composto nel 1836 presso Villa Ferrigni a Torre del Greco, ora per l’appunto rinominata Villa delle Ginestre.

Uno scorcio della stanza di Leopardi a Villa delle Ginestre, Torre del Greco (Napoli) - Ph. courtesy Inge Goldsmith

Uno scorcio della stanza di Leopardi a Villa delle Ginestre, Torre del Greco (Napoli) – Ph. courtesy Inge F. Goldsmith

La Ginestra viene pubblicata per la prima volta nell’edizione napoletana dei Canti curata dallo stesso Antonio Ranieri nel 1845. Il componimento è considerato il testamento poetico di Leopardi, che, osservando una ginestra sulle pendici del Vesuvio, riflette sulla condizione umana e sulla natura.

Si apre citando un versetto di Giovanni, E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce, ed esplora lo spazio desolato della natura che si sovrappone a quello precario della storia e degli uomini, e dalla contemplazione di queste rovine, di questo deserto, il poeta vede nascere tuttavia il verace saper e il fiore gentile della odorata ginestra, che solitaria ed eroica oppone all’aridità del deserto una reale possibilità di vita, racchiusa nei suoi colori splendenti, che aprono ad un’illuminata riflessione, ovvero che la resistenza alla forza devastante della natura può nascere solo da un vero e fraterno amore tra gli uomini, una social catena che li unisca, rendendoli consapevoli della loro pochezza, in più civili e onesti rapporti sociali.

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LA GINESTRA

Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra se. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama se nè stima
Ricco d’or nè gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così, qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.

Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e sulla mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel, profondo
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell’uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall’ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Sull’arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontano l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
Per li vacui teatri, per li templi
Deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per voti palagi atra s’aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino,
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.

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