Eduardo e quell’odore di ragù sull’isolotto di Isca

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Campania - Isolotto di Isca, Massa Lubrense (Napoli) - Ph. Fiore Silvestro Barbato - License

Lo preparava Maria, la moglie del custode del grande scoglio con pareti a strapiombo al largo di Marina del Cantone (Massa Lubrense), per Eduardo De Filippo dopo che il drammaturgo si concesse quel “buen retiro” in mezzo al mare. I lavori dell’ingegnere Mario Pacifico per realizzare la casa e il piccolo molo.

di Nino Masiello

La telefonata da Roma o da Napoli arrivava sempre con largo anticipo. “Marì, il commendatore verrà domani, ma mi ha già detto che domenica tiene ospiti a Isca e gradirà molto il tuo ragù, prepara l’occorrente”. Che voleva dire: “lacierto” e quant’altro di carne, mai dimenticare la buona conserva di pomodoro e gli odori.

Maria è la moglie di Amerigo, per vent’anni custode dell’isolotto al largo di Marina del Cantone. Da un po’ è malferma e poco sotto gli ottanta che suo marito, invece, che li ha già festeggiati, amministra splendidamente, lasciandosi cuocere il volto e le mani dal primo raggio di sole mentre respira a pieni polmoni sulla spiaggia di ciottoli. Da quando, a metà degli anni Cinquanta, Eduardo prese affettuosamente a chiamarla e a parlarne come di “Maria d”o rraù”, il soprannome le è rimasto cucito addosso ed è stato sempre portato con legittimo orgoglio, come quello di un chissà quale casato. Sicché, quando alla Marina arrivavamo allegramente in Vespa e ci concedeva, soltanto cedendo alla insistente e garantita intercessione di Salvatore Caputo, antico amico “cantonese” della leggendaria famiglia dei “Pappone”, qualche ricordo delle sue magie ai fornelli dell’isolotto di Isca, misurava solennemente le parole. E sempre, quasi un’intercalare, si raccomandava: “Queste cose non le dovete scrivere perché il commendatore si piglia collera…”.

A traghettarla a Isca, come per Eduardo e i suoi famigliari e gli amici più intimi, pensava Amerigo che, oltre a custodire l’isolotto coadiuvato da un enorme mastino napoletano, comandava il “San Pietro”, il grosso gozzo sorrentino di proprietà di Eduardo che una volta volle cimentarsi in una gara, a Positano, e arrivò secondo. Esigentissimo, l’attore e drammaturgo se lo era fatto costruire da un Aprea masto d’ascia celeberrimo, dopo averne a lungo discusso con gli amici Lancellotti e Astarita, giù alla marina di Massa Lubrense, al tavolo del bar-simbolo del luogo. Allo stesso tavolo, qualche anno prima, Gigi Lancellotti, farmacista assai benestantee, insieme ai sorrentini Gargiulo amicissimo di De Filippo, si era speso con forza e passione per convincere Vittorio Astarita, figlio di banchiere con casale in via Vescovado a Massa Lubrense, a vendere Isca al Maestro delle scene. Avendo, intanto, venduto la bella casa napoletana al Parco Grifeo, Eduardo, da poco proprietario del Teatro San Ferdinando, voleva concedersi un “buen retiro”, lontano dal frastuono di qualsiasi città, Napoli compresa, dove preferiva vivere all’Excelsior.

Aveva già Luca (1948) e Luisella (1949), la seconda moglie si chiamava Thea Prandi. Frequentatore assiduo della penisola sorrentina, aveva scoperto Isca durante una gita da Sorrento a Positano. Si era informato e gli avevano detto che quel grosso scoglio chiamato dai pescatori del luogo Galluzzo, alla maniera antica, senza alcun riferimento all’altro isolotto, Li Galli, poco distante e regno di Massine, dio della danza, era di proprietà dell’Astarita figlio.

Questi, morto il padre, ormai frequentava Isca di rado, quasi sempre per dare la caccia ai tordi durante l’inverno, appostandosi nei pressi degli ulivi secolari, e ai conigli selvatici durante l’estate. Non fu impresa facile vincere le resistenze di Vittorio Astarita, ma gli ottimi uffici spesi da Lancellotti e l’amicizia con Eduardo riuscirono ad avere la meglio. Eduardo affidò seduta stante all’ingegnere Mario Pacifico, che aveva avviato i lavori per il San Ferdinando, il compito di dirigere anche i lavori a Isca. La vecchia casa diventò più grande di un piano e di un terrazzo, mentre gli interni furono completamente messi su misura per i gusti e le esigenze del nuovo proprietario.

Isca aveva conservato per molti secoli ampi resti di una grande villa d’epoca romana che comprendeva due ninfei in altrettante grotte naturali. Raccontano gli storici che tutte le costruzioni – domus, cisterna e ninfei – si trovavano sul versante che guarda la vicina costa. Ancora oggi è possibile scorgere qualche rado resto della villa lungo la parete che affaccia sulla costa, su un braccio di mare largo circa cento metri. Più spettacolare, invece, per la sua inaccessibilità, l’osservazione della costa settentrionale, alta dai 20 ai 25 metri, a strapiombo, costellata di arbusti di vegetazione mediterranea, molti, presumibilmente, profumati. Più grotte caratterizzano l’area. Si nota quel che resta dell’antico attracco. A livello del mare si osservano alcuni conglomerati cementizi e, più in alto, pochi scalini scavati nella roccia. Sopra gli scalini c’è la volta definita dell’antica cisterna e gli ingressi dei due ninfei. L’attracco moderno, rifatto dagli operai diretti dall’ing. Pacifico, è come lo voleva Eduardo, un piccolissimo molo alto circa un metro collegato alla costruzione eduardiana da una scalinata di mattoni rossi.

La dimora insiste nella stessa zona nella quale sorgeva la domus dell’antica villa romana, sull’unica sporgenza della costa dell’isolotto. La spiaggia di Recommone è a un sospiro, nei pressi le grotte si sprecano creando un’unica, inimitabile magia. Il “San Pietro” levava l’ancora sempre dalla spiaggia di Marina del Cantone, non più di dieci minuti e il diesel portava tranquillamente il gozzo con i suoi padroni o gli ospiti del padrone al moletto di Isca. Qui “Maria d”o rraù” si faceva trovare immancabilmente per gli onori di casa ricevendo in regalo il democratico abbraccio di Eduardo, i baci di Luca, la carezza di Isabella.

In cucina c’era sempre pronto tutto l’occorrente per il ragù ma, prima di accendere i fornelli, Maria aspettava puntualmente “‘o padrone ‘e casa” e committente. Perché Eduardo doveva presiedere al rito, lui che il classico sugo della domenica napoletana aveva già celebrato nel 1946 (‘O rraù ca me piace a me / mo ffaceva sulo mammà. / A che m’aggio spusato a te, / ne parlammo pè ne parlà. / Io nun songo difficultuso; / ma luvammela miezo st’uso. / Sì, va buono: comme vuò tu. / Mò, ce avessem’appiccecà? / Tu che dice? Chest’è rraù? / E io m’o mmagno pè m’o mangià…/ Ma faje dicere na parola?…/ Chesta è carne ca pummarola).

Legato alle tradizioni, come le aveva apprese da mamma Rosa e da nonna Concetta, Eduardo diventava intransigente anche in cucina quando qualche minimo passaggio nella confezione di un piatto napoletano non gli sembrava preciso. Maria aveva imparato in fretta, scrupolosa di suo, a rispettare ogni rito e quello del ragù in particolare. Si prendeva regolarmente la sua parte di applausi dai commensali nelle domeniche di Isca. A una di queste partecipò, in uno degli ultimi soggiorni del Maestro sull’isolotto, Federico Frascani, giornalista e saggista che, insieme al pittore e giornalista Paolo Ricci, godeva della fraterna amicizia di Eduardo. “Isca è poco più di un grosso scoglio – raccontò in seguito Frascani, – fronteggiante uno dei tratti più aspri e selvaggi della costiera amalfitana. Ha un ampio risalto sul mare, fatto com’è di pietra nera e con alte pareti a strapiombo. Una rapida, stretta scalinata scavata nella roccia porta alla villa di Eduardo, biancheggiante sulla sommità dello scoglio. L’approdo non è facile quando il mare è mosso perché le onde spingono pericolosamente le imbarcazioni contro lo spiazzale roccioso che fa da approdo”.

Sull’isolotto montava la guardia un cane pronto a saltare sull’imbarcadero, quasi occupandolo con la sua mole. “Un mastino color lavagna – continua Frascani – così enorme da evocare il ricordo del molosso cui, ne ‘Il mastino di Baskerville’, Conan Doyle affida il ruolo di arma del delitto poiché il suo terrificante aspetto e i suoi latrati cavernosi bastano a far morire, come l’assassino aveva previsto, un ricco gentiluomo dal cuore debole. Il cane, minacciosamente abbaiando, si protese verso di noi, rimasti prudentemente al largo, finchè il guardiano di Isca, al quale avevo urlato le mie generalità perché Eduardo mi ammettesse al suo cospetto, non riuscì ad allontanarlo, consentendomi così di sbarcare. Rividi, però, il mastino, poco dopo, nel luminoso padiglione dove Eduardo mi accolse, a piedi scalzi, perché gli piaceva sentire ‘o ffrisco d”a preta”.

Fu proprio a Isca che un colpo di fulmine “ferì” Eduardo quando accolse sull’isolotto – doveva essere il 1955 o 1956 – una comitiva di gitanti che, avendolo riconosciuto mentre armeggiava sul piccolo imbarcadero, gli avevano gridato la loro ammirazione. Tra quei gitanti, che furono invitati a fermarsi per gradire un bicchiere di vino bianco, c’era la sua futura terza moglie, la bella Isabella Quarantotti, classe 1921, ancora sposa del professor Felice Ippolito e madre di Angelica, futura attrice per più stagioni. Ne parlò con insolita premura dopo il matrimonio civile con Isabella, celebrato dall’allora sindaco di Napoli Maurizio Valenzi (1977) nella sezione comunale di via Cesare Rossarol, due passi dal San Ferdinando che ancora conservava splendore e dove si consumavano gli spiccioli delle lunghe, sempre eccelse stagioni defilippiane.

A Marina del Cantone non si è ancora volatilizzato il ricordo degli arrivi e delle partenze di Eduardo; resistono, riservatissimi, numerosi testimoni di quei tempi che Luca e la sua famiglia, sempre presenti a Isca durante l’estate, conoscono uno a uno e ai quali ricambiano affetto e immutata simpatia: i traghettatori “Ye-Ye”, un’istituzione difesa dai giovani eredi della dinastia; Agostino, figlio di Amerigo, il guardiano di Isca e “capitano” del “San Pietro”; i Caputo, albergatori e ristoratori e chissà quanti altri ancora, tutti personaggi carichi di storie che non amano raccontare in segno di rispetto per quanti furono protagonisti di quelle storie. Eduardo in primis. Né si concede più di tanto il pur fine “raconteur” Salvatore Caputo, patron della stellare “Taverna del Capitano” ricavata da un’antica casa di pescatori al centro della marina della baia, da tempo regno dell’alta cucina mediterranea con Grazia Casa, moglie di Salvatore, suo figlio Alfonso, la sorella Mariella, sommelier dolcissima, tutti decorati per la cucina da sogno. Quanto a nobiltà di vissuto con i Caputo proprio non si scherza. Nonno Alfonso era una specie di “ras” della zona con una serie di piccole imprese che andavano dalla salumeria al forno a legna, dal mulino ad acqua al frantoio e, infine, a una micro-azienda erogatrice di corrente elettrica per tutta Nerano, nonché costruttore e gestore del pontile di approdo a Marina del Cantone.

Meno male che Eduardo lasciò a Isabella, un suo quadernone di versi dedicati alla cucina, a significare l’amore vero che, nel ricordo dell’infanzia, della mamma e della nonna, portava al mangiare napoletano di un tempo: a “virzo e riso”, a “‘e fasule ca scarola”, al “sartù turzuto e aveto”, a “‘nu lacierto ‘a genovese”. Con una raccomandazione speciale pe “‘o rraù”: per quello di Isca soprattutto, quando scherzava in cucina con Maria e le ripeteva, come una litania: “Po rraù nce vo’ pazienza”.

FdS – Courtesy of L’ISOLA
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