Mattia Preti, un ‘regista’ d’altri tempi. La teatralità del suo “Giuditta e Oloferne”

Mattia Preti, Giuditta e Oloferne, 1653-1654; cm 186 x 143, Napoli, Musei e Gallerie di Capodimonte.

Mattia Preti, Giuditta e Oloferne, 1653-1654; cm 186 x 143, Napoli, Musei e Gallerie di Capodimonte

di Alessandra Scriva

Il 24 Febbraio di ben quattrocentodue anni fa veniva alla luce, nella città montana di Taverna, il Cavalier Calabrese: Mattia Preti, uno dei maggiori artisti meridionali della storia dell’arte del XVII secolo.

A questo illustre personaggio sono particolarmente legata perché, oltre a essere stato il protagonista della mia tesi di laurea in Critica d’Arte, mi ricorda una mia carissima amica, l’affascinante signora Annamaria Ventura, classe 1923. Ogni sera, all’ora dell’aperitivo, mi recavo da lei e, tra bitter e stuzzichini, iniziava a narrarmi le sue avventure. Il suo primo racconto fu proprio quello del suo viaggio rocambolesco in Calabria e di quel giorno in cui casualmente il destino la volle far arrivare a Taverna, un paesino semisperduto ai piedi della Sila Piccola in provincia di Catanzaro, dove scoprì miracolosamente, all’interno di un edificio religioso, le magnifiche tele di un famoso pittore a lei ignoto: Mattia Preti.

Il suo modo di raccontare mi coinvolse moltissimo e segnò l’inizio di un rapporto confidenziale, che si consolidò sempre di più, anche grazie alle sue narrazioni così vitali, emozionanti e istruttive e alle sue rivelazioni, che mi hanno resa partecipe, pur indirettamente, di eventi, luoghi e realtà lontane, conosciute soltanto superficialmente attraverso i libri di scuola.

Ed eccomi, estasiata e rapita, a contemplare le tele del Nostro. Non si può non descrivere la sensazione di sorpresa di chi, per la prima volta, si ritrova ad ammirare una tela del Maestro calabrese. La retorica compositiva di Mattia Preti, che si esibisce in una poetica di fortissima sintesi e in un modo personale ed enfatizzato, rende le sue opere teatralizzanti e travolgenti nella profondità di racconto, capaci di mimare linguaggi e stili versatili. Il suo pennello vibrante è ricco di virtuosismo, e la sua tavolozza tenebrosa è dotata di tinte livide che, insieme a luci striscianti, campeggiano trionfanti nelle sue composizioni drammatiche.

Il suo modo di raccontare l’immagine sulla tela a volte ricorda l’ambientazione di un buio palcoscenico, altre di una serata cupa illuminata da una flebile luce lunare, dove realismo, tensione, contrasti di luci e ombre, lo accostano alle meravigliose opere del grande Caravaggio. Un’opera come Giuditta e Oloferne, realizzata da Preti tra il 1653 e il 1654, rappresenta in modo inequivocabile il suo stile di pittore ‘regista’.

La tela fino al 1806 si trovava nella chiesa della comunità calabrese di San Domenico Soriano a Napoli; in seguito, con l’abolizione degli ordini ecclesiasti, fu trasferita nelle Reali Collezioni Borboniche e da queste entrò a far parte delle collezioni del Museo Nazionale di Capodimonte, dove è ancora oggi custodita.

Una tenda semichiusa sembra fare da sipario e introdurre il riguardante all’interno di una scena efferata, ma allo stesso tempo eroica, poiché la bella Giuditta prima invoca per sé la protezione del Dio di Israele a salvezza delle sue genti e solo dopo con tutta la forza di cui era capace colpì due volte Oloferne al collo staccandogli la testa. Preti dispone in primo piano il corpo esamine del nemico sconfitto, ancora grondante di sangue, che giace incartato tra lenzuola fra le cui pieghe si riflette la luce; in secondo piano vi è Giuditta, che tiene in mano la testa di Oloferne appena mozzata, la sua pelle è bianca ebano, illuminata da una luce fuori campo che, scendendo dall’alto, la fa emergere in tutta la sua tempra e forza emotiva. Rimane in penombra la serva, testimone di una scena che continua, nella sua drammaticità, a essere carica di sentimenti composti e intimi. Preti, infatti, ci vuole proiettare verso l’essenza del gesto, facendoci restare indifferenti alla morte, come prima di lui, con la stessa tematica, avevano fatto Caravaggio e Artemisia Gentileschi.

In questa prova, è chiara la presenza dell’interpretazione in chiave barocca del naturalismo caravaggesco, in cui si percepiscono le esperienze venete ed emiliane dell’artista.

Concludendo, il suo operato artistico, grazie anche a questa verve tenebrosa, è stato riconosciuto ed elogiato da moltissimi critici come Roberto Longhi, Luigi Siciliani, Salvatore Mitidieri, Lina Montalto, Alfonso Frangipane e, attualmente, tributato anche da Vittorio Sgarbi, che gli ha dedicato un bellissimo volume edito da Rubbettino. Testimonianze, queste, incontrovertibili, che dimostrano in lungimiranza come la pittura di Mattia Preti abbia lasciato una traccia indelebile.

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