La scoperta di una villa romana a Mondragone riaccende i riflettori sul Falerno, il primo vino DOC della Storia

Dioniso e Eros, copia romana da originale greco del IV sec. a.C. - Napoli, Museo Archeologico

Dioniso e Eros, copia romana da originale greco del IV sec. a.C. – Napoli, Museo Archeologico

“Perchè, fanciullo, smetti di mescermi l’immortale Falerno? Raddoppia le mie tre coppe attingendo dalla vecchia giara.”
Marziale, Epigrammi, L. IX, I° sec. d.C.

di Kasia Burney Gargiulo

Venere di Mondragone, II sec. a.C, Napoli, Museo Archeologico | Ph. Sailko | CCBY-SA3.0

Venere di Mondragone, II sec. a.C, Napoli, Museo Archeologico | Ph. Sailko | CCBY-SA3.0

Famedisud prosegue il suo viaggio fra le meraviglie nascoste del Mezzogiorno d’Italia e stavolta vi porta in Campania per parlarvi di una recentissima scoperta archeologica che ha magicamente ristabilito un ponte fra presente e passato alla luce di un alimento che fa parte del nostro quotidiano, ma affonda le sue radici nei millenni: il vino. Si tratta del ritrovamento di una casa colonica di epoca romana, edificata nel III secolo a.C. tra il Monte Petrino ed il Monte Massico, in territorio di Mondragone (Caserta), l’antica Sinuessa, città posta lungo il litorale tirrenico nei pressi della Via Appia e oggi in gran parte sommersa a causa del bradisismo. L’edificio è corredato di ambienti molto ampi e di attrezzi destinati alla produzione del vino; presenta infatti le tipiche caratteristiche di una villa dedita alla produzione di quello che sarebbe diventato celebre fra i Romani con il nome di “Falernum vinum”, il mitico Falerno.

Gli scavi, finanziati dal Comune e condotti dall’Università di Perugia in collaborazione con l’equipe del Museo Civico Archeologico ‘Biagio Greco’ e la Soprintendenza archeologica della Campania, hanno permesso di recuperare oltre agli ambienti della villa, edificata su un possente basamento in opera poligonale di calcare, anche numerosi frammenti ceramici di contenitori in uso per le derrate alimentari, gli splendidi e ben conservati pavimenti in cocciopesto decorati con meandri continui di tessere calcaree, e infine la sala di un torchio vinario dove venivano pigiate le uve coltivate nei terrazzamenti del vigneto che circondava l’edificio e le cui tracce sono state individuate grazie agli studi sui terrazzamenti fossili di età romana presenti su tutto il territorio.

Oltre a testimoniare la plurimillenaria antichità di una tradizione vinicola che prosegue ancora ai giorni nostri, la scoperta ha una eccezionale importanza storica, archeologica e scientifica perchè l’edificio ritrovato rappresenta l’antesignano della villa schiavistica romana quella cioè destinata ad affermarsi dopo le Guerre Puniche come vera e propria azienda agricola in grado di produrre per i grandi mercati italici e transmarini, in un periodo in cui la schiavitù diventa fenomeno di massa. L’edificio di Mondragone infatti, sebbene non presenti ancora le caratteristiche di ricchezza delle ville fondate nel territorio sinuessano a partire dalla metà del II sec. a.C., tuttavia possiede in forma embrionale alcune caratteristiche dei grandi edifici rustici poi dotati di una pars urbana e di una pars rustica o fructuaria. Con il prosieguo degli scavi, gli studiosi contano di riuscire a delineare la prima pianta completa di uno degli impianti produttivi più antichi e interessanti del territorio di Sinuessa specializzato nella produzione di vino Falerno, il primo ‘Grand Cru’ della Storia.

FALERNO: OLTRE 2300 ANNI FA UN “LUXURY WINE” PER PRIVILEGIATI

E’ stato il più noto, il più apprezzato e il più costoso, nonché il primo Doc dell’enologia mondiale.  Gli antichi romani lo tennero in altissima considerazione e solevano conservarlo in anfore chiuse con tappi muniti di targhette che ne garantivano l’origine e l’annata oltre a segnalare il nome del produttore. Celebri letterati e storici dell’antica Roma ne hanno più volte tessuto le lodi. E’ il Falerno, il vino più celebrato dell’antichità. Il suo sapore corposo e ogni sua altra qualità sono stati cantati da Virgilio nelle Bucoliche, Orazio lo ha definito “severo”, “forte” e “ardente”,  Marziale “immortale”, Ovidio “l’epiteto di un dio”, Varrone “un incendio di forza” e Cicerone “solidissimo, generoso e di mirabile bontà”. E mentre Tibullo prega per averne presto una coppa, Petronio Arbitro nel Satyricon ci racconta che durante la famosa cena di Trimalcione ne fu servito uno vecchio di 100 anni. Silio Italico ci riporta invece alle origini leggendarie di questo vino raccontandoci che quando Bacco comparve sotto mentite spoglie ad un vecchio ed umile agricoltore del Monte Massico di nome Falerno, questi lo accolse offrendogli tutto quanto possedeva – latte, miele e frutta – per cui il dio, commosso, lo ricompensò mutando quel latte in un vino che lo lasciò inebriato e trasformando tutte le pendici del monte in un rigoglioso vigneto.

Campania - Veduta del Monte Massico, zona di produzione del Falerno - Ph. Specializedturin | CCBY-SA3.0

Campania – Veduta del Monte Massico, zona di produzione del Falerno – Ph. Specializedturin | CCBY-SA3.0

Più ”scientifico” nell’approccio invece Plinio il Vecchio che ne distinse tre varietà: il Faustianum ritenuto in assoluto il migliore e prodotto sulla media collina corrispondente agli attuali territori collinari di Falciano del Massico e Casanova di Carinola, il Caucinum, di alta collina, nel territorio più elevato di Casale di Carinola, e il generico Falernum prodotto in pianura. Della qualità e della fama raggiunta da questo vino ne dà prova il costo elevatissimo che deduciamo da una scritta ritrovata a Pompei – “Edone fa sapere che qui si beve per 1 asse; se ne paghi 2, berrai un vino migliore; con 4, avrai vino Falerno”- così come il fatto che un pranzo e una cena per essere a quel tempo dichiarati davvero “di lusso” dovevano essere accompagnati dal vino Falerno. A tal proposito Diodoro Siculo racconta che un’anfora di Falerno si comprava con trentatre dinari (laddove con cento dinari si acquistavano due buoi o quattordici quintali di grano) e che ad Ercolano con il costo di un bicchiere di Falerno si ottenevano le prestazioni di due prostitute di rango. Nonostante ciò, il Falerno era talmente ricercato e la sua produzione così insufficiente a soddisfare tutte le richieste, da spingere i soliti furbi a falsificarlo. Del resto c’era da aspettarselo per un vino al quale furono attribuiti persino effetti miracolosi in campo erotico, come testimoniato da Lucano a dir del quale il Falerno dava vigoroso supporto agli incontri hot di Cleopatra.

Benvenuti dunque nell’antico Ager Falernus, la zona fra Carinola, Capua e il Massico, fino a Mondragone (l’antica Sinuessa), area del casertano i cui terreni sono da sempre eccellenti per la produzione del vino, come ci svela non solo la imperitura fama del Falerno, ma anche il ritrovamento di un vigneto fossile basato su una struttura romana, la cui tecnica è giunta fino ai giorni nostri: sono state infatti ritrovate tracce dei filari nei quali erano sistemate le viti, una forma di coltivazione evoluta rispetto a quella originaria che formava un ammasso vegetale disordinato. Fra i solchi sono emersi pezzi di ceramica di età imperiale romana, e dall’indagine svolta si è accertato trattarsi di una vigna di Falernum, mentre nel tratto sud-ovest di questo areale sono state ritrovate piccole piante di viti arcaiche.

L’Ager Falernus era un frammento del più ampio Ager Campanus che sotto la dominazione romana fu frazionato in piccoli appezzamenti affidati ai soldati in congedo. Il vino fece la fortuna di molti di loro, trasformando questi luoghi in un’area di grandi commerci per Roma, chiamata a soddisfare le richieste di vino provenienti da ogni angolo dell’Impero. Si è calcolato che qui fossero presenti circa 150 fattorie dedite alla produzione vinicola e a quella delle leguminose che garantivano alla coltivazione della vite il necessario apporto di azoto. Tali aziende, di cui quella ritrovata di recente a Mondragone è un significativo esempio, furono via via affiancate da ricche ville aristocratiche con vigneto annesso, come testimonia il ritrovamento di tracce dei tutori che sostenevano le piante.

LE PROBABILI ORIGINI GRECHE DEL VITIGNO

Esemplare di anfora vinaria

Esemplare di anfora vinaria

E’ chiaro che un vino di tale successo non si improvvisa. Se infatti la documentazione archeologica non va oltre il III° sec. a.C., un passo di Polibio ricordato da Ateneo nel suo “I Deipnosofisti”, parla di un buon vino, l’anadendrite, prodotto vicino Capua, che potrebbe essere stato l’antesignano del Falerno. Si ritiene infatti che i Greci, approdati in zona nell’VIII sec. a.C., possano aver introdotto fra le popolazioni locali tecniche di coltivazione della vite che, con l’arrivo dei romani nel IV secolo a.C. e il supporto di migliori infrastrutture, si sono poi tradotte in un’attività produttiva tale da consentire la commercializzazione del vino in Italia e nel resto dell’Impero. Forse non a caso in fonti letterarie antiche come Plinio e Columella si fa riferimento ad alcune viti, dette aminee, che sarebbero state portate dai coloni Greci approdati in Campania, sebbene sia pressochè impossibile stabilire a quali degli attuali vitigni corrispondano. Anche l’anfora vinaria, tipico contenitore in terracotta usato per il trasporto del prezioso nettare, in origine altro non era che un oggetto in uso nella Magna Grecia, adottato in modo intensivo dai Romani per le proprie esigenze a partire dal III secolo a.C. al punto da determinare la nascita di veri e propri centri di produzione ceramica sia lungo la costa sia all’interno a più diretto contatto con i fondi coltivati a vigneto.

FALERNO: UNA PRODUZIONE MILLENARIA ARRIVATA FINO AI GIORNI NOSTRI

Se il nome e la fama del Falerno sono sostanzialmente legati all’antichità più remota, limitate tracce della sua produzione sono ravvisabili ancora nel V e VI sec. d.C. periodo nel quale peraltro muta il sistema di trasporto passandosi dalle anfore alle botti. Anche per l’epoca medioevale si hanno fonti che attestano ancora, sebbene in modo molto più ristretto, la produzione del Falerno. Una continuità, e soprattutto una vocazione territoriale che, attraverso vitigni e nomi ormai diversi, è arrivata fino ai giorni nostri, riuscendo a garantire ancora un prodotto di alto livello. Al 1989 risale infatti l’istituzione di una DOC che,  sotto il nome di Falerno del Massico, ha voluto richiamarsi alla tradizione e al nome del Falerno antico. Il disciplinare prescrive che si produca nei 5 Comuni di Falciano del Massico, Carinola, Mondragone, Cellole e Sessa Aurunca.

Alcune figure di rilievo dell’enologia moderna come Luigi Veronelli e Luigi Moio hanno ritenuto che la qualità dell’odierno Falerno possa a buona ragione rispecchiarsi in una tradizione così antica e prestigiosa, soprattutto nel caso del Falerno ricavato dal vitigno Primitivo (il disciplinare prevede infatti il possibile utilizzo anche di uve da vitigni Aglianico, Piedirosso e Barbera per i rossi e Falanghina per i bianchi). Per promuovere oggi questo vino, che ha dalla sua parte un terroir e una tradizione davvero unici, nel 2010 è nata la Confraternita del Falerno, Associazione Culturale No Profit che intende sostenere le relazioni tra produttori, specialisti ed amanti del Falerno attraverso iniziative di tutela e promozione del vino Falerno del Massico DOC, delle uve impiegate nella sua produzione e soprattutto del suo straordinario territorio di origine. Un modo per resistere e tentare di vincere nella grande sfida del “mercato globale”, nel quale purtroppo il marketing spesso prevale sui valori della qualità e della tradizione.

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Bibliografia:

Stefano de’Siena, Il vino nel mondo antico, Mucchi Editore, 271 p. – Modena 2012
Giovanni De Stasio, Immortale Falernum, Comune di Falciano del Massico, 2012
Giovanni Di Pasquale (a cura di), Vinum Nostrum, 378 p. – Giunti Editore, Firenze 2010
Giovanni Negri – Elisabetta Petrini, Roma caput vini, Mondadori, 204 p. – Milano 2011
Manuela Piancastelli, I grandi vini della Terra di Lavoro, 79 p. ill. – ed. Pubblitaf, Napoli s.d.
Ugo Zannini, I vini d’età romana in Campania settentrionale, in Civiltà Aurunca, 75-76, Minturno 2010

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