Ultimo tango a Parigi: al Bif&st terza vita di un capolavoro del Cinema. Standing ovation per Bertolucci

Marlon Brando e Maria Schneider in "Ultimo tango a Parigi", di Bernardo Bertolucci

Marlon Brando e Maria Schneider in una scena di “Ultimo tango a Parigi”, di Bernardo Bertolucci

Dopo la proiezione, affollatissima masterclass del cineasta al Teatro Petruzzelli. Calorosa standing ovation del pubblico e commozione del regista per l’assegnazione del Fellini Platinum Award for Artistic Excellence

di Enzo Garofalo

Poco più di mezz’ora per incontrare e rivolgere qualche domanda a uno dei miti viventi del cinema italiano e internazionale di sempre: è il tempo concesso ai giornalisti durante il Bari International Film Festival (Bif&st) per un rendez-vous con il regista Bernardo Bertolucci subito dopo la proiezione mattutina per la stampa del suo Ultimo tango a Parigi. Tanto però è bastato per percepire – con rinnovato interesse per i cinefili veterani e con autentico senso di scoperta per i più giovani – umori, atmosfere, retroscena, suggestioni artistiche, che hanno accompagnato la genesi della seconda pellicola di maggior successo della storia del cinema italiano. Un ‘racconto’ che il grande cineasta ha proseguito con una masterclass al Teatro Petruzzelli dove intanto era terminata la proiezione de ”La strategia del ragno” e dove gli è stata comunicata l’assegnazione del prestigioso Fellini Platinum Award for Artistic Excellence. Girato nel 1972 e considerato oggi un vero e proprio cult, “Ultimo tango a Parigi” ha festeggiato a Bari i suoi 46 anni di vita con la proiezione in anteprima mondiale della versione restaurata in 4K dalla Cineteca Nazionale e dalla Cineteca di Bologna. Una straordinaria operazione che ha avuto, per l’immagine, la supervisione del pluripremiato autore della fotografia Vittorio Storaro, e per il suono quella di Federico Savina.

Il restauro ha permesso di recuperare parte della qualità visiva andata perduta col tempo e ha riportato l’attenzione sul problema della salvaguardia, ab origine, dell’integrità qualitativa delle opere cinematografiche, per nulla superato con l’avvento del digitale, come ha spiegato Storaro nel corso di un incontro tenuto il giorno prima. L’altra grande novità riguarda il sonoro, grazie alla proposta inedita (almeno per l’Italia) dei dialoghi in lingua originale (francese e inglese), elemento che consentendo – come ha affermato Bertolucci – “il recupero di tutti quei chiaroscuri che scompaiono col doppiaggio” – offre l’opportunità di apprezzare al meglio la reale statura attoriale di Marlon Brando e della giovane coprotagonista, la talentuosa Maria Schneider.
 

Il regista Bernardo Bertolucci fra il giornalista David Grieco (a sin.) e il direttore artistico del Bif&st Felice Laudadio - Ph. © Tiziana Rizzi

Il regista Bernardo Bertolucci fra il giornalista David Grieco (a sin.) e il direttore artistico del Bif&st Felice Laudadio  durante la masterclass al Petruzzelli – Ph. © Tiziana Rizzi

 
Per Brando, già divo conclamato con una mirabile carriera alle spalle, questo film rappresentò una occasione di riscatto in un momento professionale e personale difficile: “All’inizio – racconta il regista – per la parte avevo pensato a Jean Paul Belmondo, ma dopo aver letto la sceneggiatura mi cacciò dal suo ufficio dicendomi che non aveva alcuna intenzione di girare un porno, tale essendogli sembrato a causa delle scene di sesso previste dal copione. Decisi quindi di rivolgermi a Jean-Louis Trintignant che però rifiutò ammettendo con molto rammarico di non riuscire a stare nudo davanti alla macchina da presa. Fu quindi la volta di Delon a cui invece l’idea del film piacque al punto da volerlo coprodurre. Era evidente che intendeva acquisire un suo controllo, ma stavolta fui io a declinare la proposta, volendo preservare la mia libertà creativa. Così una sera, mentre ero a cena con amici a Piazza Navona, qualcuno suggerì il nome di Brando”.

Inizia così l’affascinante racconto del rapporto con un attore del quale si erano perse le tracce prima della grande svolta rappresentata da Il Padrino di Coppola e da Ultimo tango a Parigi, film che determinarono per lui una vera e propria rinascita artistica dopo il declino degli ultimi anni: “Riuscii a far venire Brando a Parigi all’hotel Raphael, dove era solito andare Rossellini – ricorda il regista. Gli raccontai la storia del film in un minuto e mezzo e in un inglese improbabile, mentre lui in silenzio guardava in basso senza mai alzare gli occhi. Poi mi disse che stava cercando di capire quando avrei finito di agitare il mio piede per il nervosismo! Mi chiese quindi di vedere Il conformista, il mio film reduce da un grande successo internazionale e, terminata la visione, si alzò sorridendo e mi invitò ad andare qualche giorno a Los Angeles, dove avremmo parlato più a fondo della sceneggiatura, prima di passare alla realizzazione. Fu la mia prima volta in quella che, più che una città, mi sembrò un immenso parcheggio, ma me ne rimasi subito affascinato. Arrivato a Los Angeles, mi trovavo al Beverly Hills Hotel in preda al jet lag, quando Brando mi chiamò per avvisarmi che sarebbe passato a prendermi entro mezz’ora. Così fu: ci dirigemmo a casa sua, a Mulholland Drive, per una strada sterrata lungo la quale ricordo incontrammo una femmina di coyote con i suoi cuccioli. Sono andato da lui tutti i giorni per un mese e abbiamo parlato di tutto – dell’eternità, della vita, della morte – tranne che del film, segno che non c’era alcun pregiudizio da parte sua”.
 

Bernardo Bertolucci (a sin.) con Marlon Brando e Maria Schneider a Parigi - Image Everet Collection

Bernardo Bertolucci (a sin.) con Marlon Brando e Maria Schneider a Parigi, 1972

 
Dopo quasi mezzo secolo Ultimo tango a Parigi ritorna dunque nelle sale (il pubblico potrà vederlo sia nella versione doppiata che in quella originale sottotitolata dal prossimo 21 maggio in 120 cinema italiani): un’occasione da non perdere per apprezzare una pellicola tirata sapientemente a lucido, ma sopratutto per ammirare lo straordinario talento di un attore come Marlon Brando che giganteggia letteralmente sullo schermo, calato nei panni di Paul, un uomo che cerca nell’espressione primordiale e quasi animalesca della propria sessualità l’unico linguaggio possibile all’interno di un rapporto – quello con una giovane sconosciuta – che vuole lasciare fuori il mondo con le sue convenzioni e i suoi vincoli. Il tutto nell’ansiosa ricerca di una libertà che alla fine si rivelerà effimera per entrambi. Quello di Brando è infatti un personaggio carico di un profondo e quasi insanabile senso di malinconia, sebbene venato di caustico sarcasmo; un uomo la cui sensualità ha qualcosa di disperato, in quel suo essere vissuta come una ‘fuga’ dalle ferite dell’esistenza.

A tal proposito Bertolucci ci parla di una sorta di parallelismo fra il personaggio e l’attore, uomo a sua volta dal carattere e dal vissuto molto complessi, condannato alla solitudine una volta scemata l’aura del divo. Ai tempi del film Brando ha ancora una bellezza che buca lo schermo ma appare come macerata da un’intima irrequietudine, oltre che dall’avanzare inesorabile dell’età: “L’attore – spiega il cineasta – ha costruito il suo personaggio attingendo alla propria disperazione, lasciando che frammenti del suo privato irrompessero nella finzione del film. Aveva 49 anni e allora mi apparve come un uomo che stava invecchiando, sebbene fosse ancora molto bello. Professionalmente era considerato finito come mi confermò il netto rifiuto opposto dalla Paramount Pictures alla sua presenza nel film, poi finalmente accettata dalla United Artists”. Una scelta felicissima confermata dal successo planetario del film e dal rilancio di un impareggiabile interprete, la cui fama e il cui irresistibile magnetismo, nonostante tutto, mettevano ancora in soggezione. Emblematico in tale senso l’episodio del primo ciak con l’attore: “Diedi lo stop soddisfatto del risultato – racconta il regista – quando mi accorsi che invece c’era qualcosa che non andava. L’operatore di macchina arrossì e scusandosi mi disse di essersi trovato Marlon Brando nella loop e di essere rimasto a guardarlo, paralizzato”. O il fatto che Jean-Pierre Léaud, l’attore che aveva il ruolo del fidanzato cineasta di Maria Schneider, preferisse girare le proprie scene di sabato, quando Brando non lavorava, essendo terrorizzato alla sola idea di incontrarlo: “credo sia riuscito ad evitarlo per tutta la durata delle riprese”, conclude Bertolucci sorridendo.
 

Marlon Brando in una scena di "Ultimo tango a Parigi"

Marlon Brando in una foto di scena di “Ultimo tango a Parigi”

 
Vale tuttavia la pena ricordare come, a dispetto di tanto successo, la pellicola sia passata attraverso una serie di traversie giudiziarie per oscenità che nel ’76 ne decretarono in Italia la condanna alla distruzione (rimasero solo poche copie alla Cineteca Nazionale quale corpo del reato), mentre regista, sceneggiatore, produttore e attore protagonista vennero condannati a due mesi di detenzione con sospensione condizionale della pena. La sentenza comportò per Bertolucci anche l’applicazione della pena accessoria della privazione dei diritti politici per cinque anni: “Fu un’esperienza surreale. Alle elezioni del ’76 – racconta il regista – non ricevetti il certificato elettorale. Pensai a un disguido burocratico per cui andai all’anagrafe elettorale a richiedere il documento; l’impiegato cercò il mio nome su una sorta di librone e venne fuori che mi era stato tolto il diritto di voto in conseguenza della condanna. Mi sentii per la prima volta profondamente ferito e umiliato. Oggi per fortuna nel nostro Paese questo tipo di censura non esiste più…” Tutto questo accadeva in Italia mentre, viceversa, alla presentazione americana del film, al Lincoln Center di New York il 14 ottobre del 1972, l’autorevole critica del New Yorker Pauline Kael aveva salutato il film come “una pietra miliare nella storia del cinema, qualcosa di simile a ciò che per la musica ha rappresentato, il 29 marzo 1913, la prima rappresentazione della Sagra della Primavera”.

Ma nell’Italia degli anni ’80 finalmente cambia qualcosa: invitato con un suo film alla manifestazione “Ladri di cinema”, evento della mitica estate romana di Renato Nicolini, Bertolucci si ricorda di una copia sottotitolata di Ultimo tango dimenticata in un sottoscala della Fono Roma. I giovani organizzatori la cercano, la trovano e la proiettano e, come prevedibile, vengono convocati dal giudice che, ipotizzando un coinvolgimento del regista, pretende di sapere da dove provenga la copia. Risposta: è un dono del regista tedesco Fassbinder, scomparso tre mesi prima. Interrogato anche Bertolucci, il magistrato finalmente conclude che dopo dieci anni il concetto di oltraggio al pudore debba ritenersi mutato e che il film possa tornare nuovamente nelle sale, cosa che avviene nel 1987. L’edizione restaurata presentata a Bif&st, rappresenta quindi la terza vita di un film tutt’altro che datato, la cui proiezione non ha mancato di emozionare l’autore: “Non lo rivedevo da tantissimi anni e la sensazione è stata quasi quella di un film appena finito di girare, nonostante quel leggero velo ‘vintage’ che lo caratterizza dopo tanto tempo. E’ fantastico, d’altronde io stesso mi sento vintage! Ammetto di aver provato una grande emozione nel rivederlo e penso che, se dovessi rifarlo, accorcerei le scene con la Schneider e Jean-Pierre Leaud, in certi momenti forse inutili ma probabilmente dovute al fatto che volevo che il pubblico provasse, qui e là, nostalgia della presenza di Marlon Brando. Ora – conclude ironico – aspetto il giorno in cui le cineteche, oltre a restaurare i film, saranno in grado di restaurare anche i registi!”
 

Bernardo Bertolucci (a destra) durante la masterclass al Teatro Petruzzelli, Bari International Film Festival (Bif&st) - Ph. © Tiziana Rizzi

Bernardo Bertolucci (a destra) durante la masterclass al Teatro Petruzzelli, Bari International Film Festival (Bif&st) – Ph. © Tiziana Rizzi

 
E con l’emozione riaffiorano anche alcuni ricordi del set: “Durante le riprese c’era una grande armonia fra noi tutti…Marlon ebbe verso Maria un atteggiamento protettivo, quasi paterno, ricambiato dall’attrice che da fuori campo lo aiutava a ricordare le battute, appiccicandosi sulla fronte dei foglietti con il testo. A tal proposito, io non credo che Brando avesse un reale problema di memorizzazione del copione, come pure in tanti hanno detto, ma che evitasse di imparare a memoria le battute avvalendosi di pochi ‘appoggi’ testuali in modo da raggiungere una maggiore spontaneità espressiva. Questo sembra ad esempio suggerire la richiesta di un gobbo con pochi frammenti di testo durante il monologo davanti alla moglie morta…” Metodi che non sorprendono un regista come Bertolucci, convinto che il processo creativo vada condiviso con gli attori ai cui corpi, volti ed emozioni, si deve quella ‘reinvenzione’ di una storia scritta che in fondo è il cinema. Quella emersa durante la masterclass barese condotta dal giornalista e sceneggiatore David Grieco, è infatti una vera e propria dichiarazione d’amore del regista verso gli attori: “Devo poter amare qualcuno perché la mia macchina da presa gli si possa accostare” – afferma. “Durante la fase delle riprese i personaggi escono dalla pagina scritta e prendono corpo, carne e sangue, un ritmo con cui si muovono e occupano lo spazio. Per trarre il meglio dalle persone che stanno davanti alla mia macchina da presa ho però bisogno di poter comunicare e farle partecipare al processo creativo. Infatti non credo che gli attori siano solo “bestiame”, come invece sosteneva Hitchcock, sempre pronto a creare un’aura attorno a sé”. 

Questo rapporto speciale con gli interpreti dei suoi film – spiega Bertolucci – comincia fin dal casting: “Capisco subito se chi mi sta di fronte andrà bene o no. A orientarmi verso una persona è la percezione di un qualche senso di mistero, di segreto. Del resto io credo che il film sia la creazione del personaggio e ad esso si dà corpo anche con i misteri dell’attore che lo interpreta. Materiale umano reale e personaggio scritto si mescolano. Nei miei film la verità delle persone guida i personaggi che man mano prendono forma. Un’altra cosa che amo fare è condividere con gli attori ciò che mi ha ispirato. Nel caso di “Ultimo tango a Parigi” portai Marlon Brando, Vittorio Storaro, lo scenografo Ferdinando Scarfiotti e la costumista Gitt Magrini a vedere una grande mostra di Francis Bacon, artista allora non ancora famoso; volli che guardassero i suoi ritratti, alcuni dei quali poi inserimmo nei titoli di testa del film; fu un’esperienza che certamente creò una comunione fra di noi”.
 

Bernardo Bertolucci durante la masterclass, Bif&st 2018, Teatro Petruzzelli, Bari - Ph. © Tiziana Rizzi

Bernardo Bertolucci durante la masterclass al Teatro Petruzzelli, Bif&st 2018 – Ph. © Tiziana Rizzi

 
A questo processo di condivisione e di scambio con gli attori, e più in generale con i collaboratori del regista, è da ascriversi la sua teoria della “porta aperta”: “In America – spiega – uno strumento irrinunciabile quando si gira un film è lo story board, cioè la sequenza disegnata di ogni inquadratura. Ciò forse garantisce una maggiore fluidità sul piano industriale…ma nel mio caso io non so cosa farò il giorno dopo. Uno dei più grandi registi della storia del cinema, Jean Renoir, figlio del celebre pittore impressionista, una volta mi disse: “Ricordarti che sul set bisogna sempre lasciare una porta aperta, perché non si sa mai chi o cosa può entrare”. Mi resi conto che la “porta aperta” era in fondo quello che già facevo io, ossia dialogare con gli attori durante la lavorazione e permettere agli spifferi di realtà vera che penetrano sul set di creare un ambiente più favorevole alla creatività…la mia come quella di tutti i collaboratori”.

Naturale conseguenza di questa visione è per Bertolucci “l’impossibilità di lavorare con un attore che venga imposto dalla produzione, cosa che succede anche a registi importantissimi.” Inevitabile a questo punto una dura critica al perbenismo di certa industria cinematografica hollywoodiana di cui proprio recentemente è stato vittima il grande attore statunitense Kevin Spacey scritturato per interpretare il miliardario Jean Paul Getty nel film Tutti i soldi del mondo, di Ridley Scott, e licenziato all’indomani delle accuse di presunte molestie sessuali mossegli da alcuni giovani attori. Bertolucci contesta al regista di aver subito senza fare una piega la sostituzione di Spacey con Christopher Plummer decisa dalla produzione: “Ho provato vergogna per Scott: malgrado il suo grande potere contrattuale ha scelto di sottostare a questa imposizione razzista su Spacey che lo ha fra l’altro costretto a cancellare tutte le scene già girate con l’attore. Quando ho saputo, ho subito contattato il suo montatore storico Pietro Scalia, chiedendogli di dire a Scott che avrebbe dovuto vergognarsi, e poi mi è venuta subito voglia di fare un film con Spacey!”.
 

Il direttore artistico del Bif&st Felice Laudadio si accinge a leggere la motivazione del Fellini Platinum Award conferito a Bertolucci - Ph. © Tiziana Rizz

Il direttore artistico del Bif&st Felice Laudadio (a destra) si accinge a leggere la motivazione del Fellini Platinum Award conferito a Bertolucci (al centro) – Ph. © Tiziana Rizzi

 
Parlare di ”Ultimo tango” ha inevitabilmente portato con sé una riflessione sul Sessantotto: “Io allora avevo già 26-27 anni, non ero un 18enne nel fiume della protesta. Osservavo dall’esterno ma mi piaceva molto assistere a quello che stava succedendo in Italia e in Francia. Credo che se c’è stato questo film è anche grazie al Sessantotto, un momento di grande apertura, qualcosa di straordinariamente fresco che mi ha permesso di andare lontano nella libertà di fare film. In quel momento c’era infatti quasi un bisogno fisiologico di svecchiare, di allontanarsi da un cinema monologante, una sorta di autoconfessione personale, per passare a uno più aperto al pubblico, più dialogante, come fu appunto per Ultimo tango a Parigi. Il ‘68 è stato la straordinaria elaborazione collettiva di un sogno: quello di cambiare il mondo, dell’immaginazione al potere, del ‘proibito proibire’ e penso anche che il ’68 abbia gettato il seme di un movimento come #MeToo che mi vede totalmente d’accordo”.

Tenero e divertente il ricordo del primo incontro con Pier Paolo Pasolini di cui sarebbe diventato assistente alla regia:“Il mio primo incontro con Pasolini, amico di mio padre [il poeta Attilio Bertolucci – NdR] fu a 14 anni. Una domenica sentii suonare alla porta di casa, a Roma; andai ad aprire, lui si presentò ma io lo lasciai lì davanti, chiudendo nuovamente la porta. Dissi a mio padre che c’era un tale che chiedeva di lui, che aveva un’aria strana, quasi da ladro, e che si chiamava Pasolini. E mio padre: “Ma come, è un grande poeta! Fallo entrare subito!”. Qualche anno dopo Pier Paolo scrisse la poesia “A un ragazzo”, in cui parlava del fratello partigiano, partito con un libro di Montale e una pistola nella valigia. La poesia finisce con due versi che recitano: “Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto, finirà non chiesto, si perderà non detto”. Quei versi racchiudevano qualcosa di molto doloroso per lui. Passarono degli anni e un giorno mi propose di fargli da aiuto regista. Gli dissi che non ero mai stato su un set, e lui: “Ah, se è per questo, neanch’io!”. Ricordo che fu molto bello preparare “Accattone”, fare i sopralluoghi nelle borgate, che Pier Paolo conosceva bene. Abitavamo vicini e ogni giorno salivo sulla sua Giulietta e andavamo sul set. Era molto scherzoso e a volte mi raccontava pezzi di sogni che faceva. Vidi nascere altri suoi film. Diversamente da me, non aveva fra i suoi modelli i registi della Nouvelle Vague, ma i primi piani de “La passione di Giovanna d’Arco” di Dreyer. Ricordo ancora l’emozione del giorno in cui mise la macchina da presa sulle ruote per una carrellata: fu qualcosa di estraneo al suo stile, perché lui diceva di volersi ispirare ai Primitivi toscani, alle feste dei Santi, che per lui erano le feste dei barboni, degli accattoni”.
 

Vittorio Storaro saluta Bernardo Bertolucci (a destra) sul palco del Teatro Petruzzelli, Bif&st 2018 - Ph. – Ph. © Tiziana Rizzi

Vittorio Storaro saluta Bernardo Bertolucci (a destra) sul palco del Teatro Petruzzelli, Bif&st 2018 – Ph. – Ph. © Tiziana Rizzi

 
L’emozionante incontro con Bertolucci non poteva concludersi senza un accenno all’esperienza hollywoodiana de “L’ultimo imperatore”, il film che nel 1988 conquistò 9 premi Oscar fra cui quelli per la miglior regia e la miglior sceneggiatura non originale. “Sono stato molto orgoglioso di aver portato una grande troupe internazionale a Pechino nell’allora inaccessibile Città Proibita. Il film – spiega il regista – fu una specie di scommessa, un kolossal con tutti attori pressoché sconosciuti, perlopiù cinesi a parte Peter O’ Toole. La Rai sembrava interessata a produrlo ma poi dissero: ‘ma il pubblico saprà distinguere sul piccolo schermo un cinese da un altro?’. Fortuna che poi il produttore Jeremy Thomas riuscì a trovare i finanziamenti.” Divertito e divertente il ricordo della premiazione: “Era tutto così straordinario, sembrava un grande luna park, un circo a cui prendevano parte anche tutti i miei collaboratori che vedevo sfilare sul palco premiati uno dopo l’altro. Ci sembrava quasi incredibile. Quando fu il mio turno, ricordo che nel discorso di ringraziamento paragonai Los Angeles a un grande capezzolo: la chiamai ‘The Big Nipple’ pensando a New York  definita ’The Big Apple’. Fra il pubblico americano, notoriamente puritano, calò un silenzio assoluto, per fortuna poi rotto da applausi e risate. Capirono che scherzavo: infatti il giorno dopo, mentre ero in taxi, un disc-jockey alla radio salutò gli ascoltatori dicendo di trasmettere da ‘The Big Nipple’!”
 
Vittorio Storaro saluta Bernardo Bertolucci (a destra) sul palco del Teatro Petruzzelli, Bif&st 2018 - Ph. – Ph. © Tiziana Rizzi

Vittorio Storaro e Bernardo Bertolucci (a destra) sul palco del Teatro Petruzzelli, Bif&st 2018 – Ph. – Ph. © Tiziana Rizzi

 
Dalle risate alla commozione il passo è breve. E’ quanto accaduto con la lettura della motivazione per cui si è deciso di conferire a Bertolucci il Federico Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence, consegnato dal premio Oscar Giuseppe Tornatore dopo la proiezione serale di Ultimo tango: “A uno dei più importanti registi e sceneggiatori di tutti i tempi, (…) capace di lasciare un segno importante nella coscienza di milioni di spettatori. Tutto il suo Cinema è sinonimo di Libertà. Il suo lavoro di intellettuale attento, lungimirante, libero dagli schemi, capace di trattare temi molto coraggiosi, ha influenzato come pochi altri intere generazioni di cineasti. Il Cinema di pochi autori è stato capace di generare tanta bellezza, intelligenza e vastità di seduzioni e fascinazioni come quello di Bernardo Bertolucci”Parole seguite da una interminabile standing ovation del pubblico e dall’abbraccio di Vittorio Storaro salito sul palco per congratularsi con l’amico di un’intera vita, a sua volta visibilmente commosso per tanta calorosa accoglienza.

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Il regista Bernardo Bertolucci sul palco del Teatro Petruzzelli - Ph. © Daniele Notaristefano | Bif&st

Il regista Bernardo Bertolucci sul palco del Teatro Petruzzelli durante la standing ovation del pubblico – Ph. © Daniele Notaristefano | Bif&st

 

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