Ricordando Nino Rota: “Quella Cinquecento decappottabile in cui caricammo quindici violini”

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Il compositore Nino Rota ai tempi della sua memorabile direzione del Conservatorio ‘Niccolò Piccinni’ di Bari. Nella foto, Rota accolto da allievi e docenti dell’istituto durante l’anno 1967-68 – Coll. Privata (courtesy)

Il compositore Nino Rota ai tempi della sua memorabile direzione del Conservatorio ‘Niccolò Piccinni’ di Bari. Nella foto, Rota accolto da allievi e docenti dell’istituto durante l’anno 1967-68 – Coll. Privata (courtesy)

di Vincenzo Ditonno

«A Peppino Decataldo, accompagnatore diurno e notturno dei miei indimenticabili giorni baresi». Firmato Eduardo De Filippo. Peppino ha le lacrime agli occhi. Nella sua piccola casa al centro di Putignano i ritratti e le foto del Maestro hanno il posto d’onore accanto a quelle dei giovani nipoti. Per un quarto di secolo, dal 1956 sino al 1979, Peppino e Maria Decataldo furono per Nino Rota una vera e propria famiglia. «Dovete assaggiare il pollo come lo fa Maria» ripeteva spesso il Maestro ai suoi ospiti. De Filippo come Federico Fellini o Alberto Sordi oltre che al pollo di Maria si affezionarono presto anche alla cinquecento decappottabile con cui Peppino li portava in giro. «Ci fu chi mi consigliò – racconta – di farmi autografare l’interno della Cinquecento. Ma chi aveva il coraggio di chiedere a Eduardo De Filippo, piuttosto che a Fellini, di mettere una firma?».

Quel quarto di secolo vissuto accanto al Maestro non si dimentica. Un affetto ed una devozione sconfinati segnano i ricordi di Maria e Peppino. Presto capisco che se a casa Decataldo si parla «del Maestro» si parla di lui. Tutti gli altri musicisti, di fronte a Rota, sono seduta stante “degradati” a professori. Nel Conservatorio di Bari, Peppino e sua moglie vissero per molti anni come custodi. «Lì – raccontano – nacquero i nostri figli. Il Maestro era il primo a farci visita e veniva anche il prof. Claudio Malaguzzi Valeri, cardiologo, amico e suo medico personale». Rimasero con lui anche quando andò in pensione. «Ci trasferimmo nella casa in piazza della Cattedrale, nella città vecchia. Noi abitavamo al primo piano, lui al secondo».

Quando era in città, il Maestro passava in Conservatorio tutte le sue giornate. «La mattina – ricorda Maria – voleva dormire. Non voleva sentir nulla». E fino a quando Rota dormiva nel suo studio, nessuno strumento poteva emetter suono, per non parlare degli studenti di canto che facevano lezione praticamente sulla sua testa. «La mattina verso le nove e mezza il Maestro avvisava che era sveglio e apriva la finestra. Quella finestra segnalava agli studenti la presenza o meno del direttore all’interno dell’istituto».

Nell’universo “rotiano” il tempo aveva un suo scorrere tutto particolare. Quando gli spiegarono che le 16.30 corrispondono alle 4.30 e non alle 6.30 del pomeriggio, Nino Rota accettò il fatto più per atto di fede che per intima convinzione. Così treni ed aerei spesso partirono senza di lui. E c’era sempre il buon Peppino che s’incaricava di raggiungere in auto Napoli o Roma al posto loro. «Era un ritardatario. Una volta – ricorda – doveva andare a Napoli. Lo avvisai che mancavano pochi minuti. Lui non aveva fatto le valigie, arraffò qualche vestito ma ebbe cura di prendere soprattutto i suoi manoscritti. Per lui erano la cosa principale. Ricordo ancora le cravatte che uscivano per metà dalla borsa». Ovviamente il treno Rota quella volta lo perse e a Napoli ci andò in auto con Peppino.

«Ma quando i treni riusciva a prenderli ed arrivava in stazione – continua – allora tutti lo riconoscevano. E capitava che i fattorini si precipitassero al suo binario, lasciando soli con i loro bagagli gli altri passeggeri. Dava mance molto generose». Della generosità di Nino Rota beneficiarono moltissimi.«Quanti studenti hanno avuto in regalo lo strumento o l’abbonamento al treno. Ricordo una volta che lo andai a prendere dalla stazione. Scese dal treno con quindici violini con cui riempimmo tutta la Cinquecento. Rimaneva appena posto per noi due e per i bagagli».

Ancor più bizzarro fu l’episodio accaduto quando Rota vinse l’Oscar per il film Il Padrino – Parte 2a. Il compositore non andò ad Hollywood a ritirarlo e l’Academy glielo fece recapitare in Italia. Il giorno dell’arrivo della preziosa statuetta al porto di Bari – racconta Peppino – “il maestro non stava molto bene e allora andai a ritirarlo al suo posto. Ebbi così l’onore di tenere l’Oscar in mano”. Poichè a Rota nulla importava dei risvolti glamour del suo lavoro, lasciò volentieri la statuetta in consegna alla famiglia Decataldo. “Mi sentivo responsabile, non sapevo come custodirla – prosegue – e allora pensai che sarebbe stata al sicuro in mezzo alle bottiglie della salsa di pomodoro. La tenni fino alla sua morte e poi la consegnai ad una sua cugina di Milano”.

I ricordi di Peppino corrono poi con emozione a quella volta in cui liberatosi un posto da direttore a Roma, il Ministero convocò Rota per proporgli di trasferirsi nella Capitale: “Andai sotto casa sua, in Piazza delle Coppelle, con una settantina fra professori e studenti del Conservatorio di Bari e chiedemmo al Maestro di affacciarsi al balcone…Lui uscì con le lacrime agli occhi…” Inutile dire che il compositore scelse di rimanere a Bari.

Quando il cuore di Rota cominciò a fare le bizze Peppino era con lui: «Si sentì male la prima volta in Conservatorio. Il professor Malaguzzi non era a Bari, arrivarono due suoi colleghi. Lo visitarono e disposero il ricovero immediato. Volle che in ospedale lo accompagnassi io. Uscimmo nel corridoio, c’erano tutti. In Conservatorio piangevano anche le pietre».

Il maestro scomparve qualche anno dopo a Roma. Quella sera, era il 10 aprile del 1979, Rota fece comprare i biglietti per la “Madama Butterfly” diretta da Bruno Moretti. «Era in ospedale – ricorda Maria – ci chiamò per avvisarci che i dottori l’avevano dimesso ma sarebbe restato per quella sera nella sua camera. Ho il pianoforte, disse, ho tutto».

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