Pompei: sequenziato DNA di un antico abitante della città vesuviana, non nuova agli studi genetici

Pompei, calchi di adulti con bambini, dalla Casa del Bracciale d'Oro

Pompei, calchi di adulti con bambini, dalla Casa del Bracciale d’Oro | Image by Ufficio Stampa – Parco Archeologico di Pompei

Sequenziato il genoma di un abitante della città distrutta dal Vesuvio nel 79 d.C. Le tecniche applicate nello studio aprono ulteriori prospettive di conoscenza sulla vita nell’antico centro campano, non nuovo alla ricerca genetica

di Redazione FdS

Un team internazionale di scienziati ha sequenziato con nuove tecniche il Dna di uno degli abitanti di Pompei periti in conseguenza della disastrosa eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Si tratta di un uomo fra 35 e 40 anni, alto circa 1,64 m. e sofferente di una malattia simile alla tubercolosi. È quanto riportato dallo studio “Bioarchaeological and palaeogenomic portrait of two Pompeians that died during the eruption of Vesuvius in 79 AD” pubblicato lo scorso 26 maggio sulla rivista scientifica internazionale Scientific Report. La vivace e popolosa cittadina campana del tempo della Roma imperiale, distrutta dall’eruzione più famosa della storia umana, alla quale di deve la cristallizzazione nel tempo di case, strade e abitanti, si offre così a una chiave di lettura scientificamente interessante che dalla vita di un singolo individuo è sempre più in grado di allargarsi all’intera comunità locale e ai suoi stili di vita. Sono infatti in costante crescita le prospettive di ricerca all’interno dell’area archeologica più celebre del mondo che non è affatto nuova agli studi genetici, come ha tenuto a precisare la direzione del Parco archeologico all’indomani della divulgazione del nuovo studio.

Quest’ultimo è stato condotto su uno degli scheletri appartenenti a due individui (l’uomo sopra menzionato e una donna intorno ai 50 anni) sorpresi e uccisi dall’eruzione nella cosiddetta Casa del Fabbro, una abitazione tra le meno fastose di Pompei ma tra quelle che hanno fornito più reperti agli archeologi. Come ha spiegato Gabriele Scorrano, dell’Università danese di Copenaghen e dell’Università di Roma Tor Vergata, coordinatore della ricerca condotta in collaborazione con Serena Viva, dell’Università del Salento, con l’Università della California a Irvine, e l’Università federale brasiliana di Minas Gerais a Belo Horizonte, “lo stato di conservazione degli scheletri era ottimo, in quanto non devono essere venuti a contatto con temperature troppo elevate. È probabile che la cenere vulcanica che circondava i due individui abbia creato un ambiente privo di ossigeno, un gas che come sappiamo è un catalizzatore di reazioni, e queste si sono rallentate molto. Il Dna era molto degradato, ma – ha aggiunto lo studioso – siamo riusciti comunque a estrarlo. Spero che questo sia il punto di partenza per analisi più dettagliate sui campioni di Pompei”. Essere riusciti, grazie a nuove tecnologie, ad estrarre e a studiare accuratamente materiali genetici dai resti organici sopravvissuti in un luogo sottoposto a temperature elevatissime e fortemente distruttive, costituisce infatti un risultato scientifico di valore ricco di implicazioni future. Le tecniche utilizzate per questo studio – scrivono gli autori – hanno infatti aumentato notevolmente la quantità di dati ottenibili da campioni precedentemente non idonei per la ricerca genetica e potrebbero aprire nuove strade per aumentare sostanzialmente la conoscenza della diversità genetica nell’antica popolazione pompeiana.

Ma cosa si è riusciti a sapere sul pompeiano sottoposto ad analisi genetica?  Confrontando il Dna dell’uomo di Pompei con le mappe genetiche di circa 1.500 Eurasiatici (1.030 dei quali vissuti in epoca antica e 471 individui nati in epoca moderna) si è scoperto che questo individuo aveva molti elementi simili a quelli degli abitanti dell’Italia centrale e di altri individui vissuti in Italia ai tempi dell’Impero Romano. L’analisi del Dna mitocondriale e quella del cromosoma Y hanno inoltre permesso di identificare gruppi di geni trovati negli abitanti della Sardegna, ma non in altri individui vissuti in altre zone d’Italia nella stessa epoca. Tali elementi, ha osservato Scorrano, lasciano dedurre che l’uomo fosse originario dell’Italia in quanto “geneticamente affine a popolazioni coeve provenienti da siti attorno a Roma”.  E mentre nello scheletro dell’uomo sono state rilevate lesioni in una delle vertebre, nella mappa del Dna sono state identificate sequenze genetiche simili a quello del batterio responsabile della tubercolosi (Mycobacterium tuberculosis), il che suggerisce che l’uomo probabilmente soffriva di spondilite tubercolare (morbo di Pott), una malattia endemica in epoca romana imperiale.

Lo studio condotto sullo scheletro dell’uomo della Casa del Fabbro – hanno puntualizzato gli esperti del Parco Archeologico di Pompei – si inseriscono all’interno di un più ampio filone di studi, condotto dal Parco che da anni lavora – anche con il contributo di Università e istituti scientifici – ad una mappatura di tutto il Dna disponibile, riservandosi di diffondere più ampi risultati quando il quadro sarà completo e scientificamente esaustivo. Il Dna degli abitanti di Pompei viene estratto fin dal 1998, profilandosi come uno dei più radicati ambiti di analisi scientifica nel sito. Quindi quanto emerso ora è solo un importante tassello di una ricerca di lungo corso che andrà ad integrare un quadro molto più vasto ed esauriente. Lo studio recente – spiegano – “ha un suo punto di forza nell’individuazione per via genetica di una vistosa patologia, la tubercolosi, già rilevata autopticamente, sebbene l’individuo in esame abbia permesso l’estrazione di un genoma al 33%, quindi non completo. Il soggetto in studio, essendo stato scavato nel 1934 ed essendo rimasto a lungo esposto, presenta percentuali di un DNA endogeno inferiori agli standard che si rilevano nella mappatura strutturata e ragionata ancora in corso”.

Tale monumentale mappatura genetica che interessa l’intera popolazione pompeiana, avviata dal 2015 è in corso a cura del Parco con la collaborazione dell’Università di Firenze, con il fine di avere un vero e proprio ritratto di una popolazione di epoca imperiale. Tale ricerca – aggiungono da Pompei – nasce dalla consapevolezza che il deposito vulcanico ha agito come “guscio” sui resti dei pompeiani, di fatto evitando che venissero “inquinati” da fattori esterni. L’ambizioso progetto ha portato alla vincita di un PRIN (Progetti di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale) finanziato per 800mila euro, dal titolo “POMPEII molecular portrait”. Già in passato, lo studio del DNA di vittime dell’eruzione del 79 d.C. ha portato a risultati importanti, a volte sorprendenti. Per esempio le analisi sui calchi del gruppo di un presunto nucleo familiare, rifugiatosi nella Casa del Bracciale d’Oro, hanno rivelato che lo stesso era composto da due adulti e due bambini di sesso maschile, ma privi di rapporti di parentela genetica.

“Ogni dato in più che risulta dalle indagini – ha dichiarato Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico – è un’importante conquista per la ricerca scientifica che contribuisce a completare il quadro storico di un’epoca e di una civiltà. È frutto di collaborazioni interdisciplinari, di un lavoro di squadra lungo e paziente, che necessita anche di una volontà comune di divulgare notizie rigorose, evitando facili protagonismi che possono rendere fuorviante l’informazione. Il Parco archeologico di Pompei è campo privilegiato di sperimentazione di tali studi, ed è il detentore dei conseguenti risultati,  che raccolti e comparati sono in grado di assicurare una comunicazione corretta della ricerca archeologica, antropologica e in generale scientifica.”

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Immagini di anteprima “Ritratto di Paquio Proculo”, fonte wikipedia – “Acido desossiribonucleico (DNA)”, fonte wikipedia
 

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