Non convince il nuovo lavoro di Vacchi su testo di Carofiglio. Trionfo per il Rach 2 di Benedetto Lupo, poeta del pianoforte

Concerto 30 settembre - ph Cofano (10)

Il pianista Benedetto Lupo mentre esegue il Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra di Sergej Rachmaninov – Ph. Carlo Cofano

di Enzo Garofalo

In un suo testo, Fabio Vacchi – da qualche anno compositore in residence del Teatro Petruzzelli di Bari (è sotto contratto fino al prossimo anno) – difende il valore della cosiddetta ‘musica colta’ di oggi sostenendo che essa continui a rappresentare una dimensione culturale “impermeabile al flusso ‘usa e getta’ del ‘liquido’ mondo d’oggi” facendosi “portavoce di un’alternativa sia al consumo indotto e livellante sia al narcisismo autoreferenziale”. Premesso che tale narcisismo è stato, ed è ancora per certi versi, proprio una delle grandi pecche di numerosi autori contemporanei, dalle parole di Vacchi sembrerebbe evincersi la possibilità di scelte creative diverse, volte finalmente a superare quella “altezzosità elitaria” che ha portato la nuova musica “sull’orlo dell’asfissia” (riprendo parole dello stesso musicista).

Ed in effetti, almeno negli intenti, il compositore bolognese si fa promotore di una musica “che non nega il corpo, il piacere, l’emotività, la comunicazione”. A tal proposito, in occasione di una conferenza a Bari nel 2007, ebbe modo anche di dichiarare che “solo una musica capace di mettere in moto le nostre percezioni sensoriali e, addirittura, affettive, può aspirare alla bellezza”, citando Goethe quando dice che “la musica è bella se non si ferma alle orecchie, ma arriva a risuonare interiormente”. Parole sante. Peccato però che all’ascolto diretto – è capitato con la sua opera lirica ‘Lo stesso mare’ eseguita al Teatro Petruzzelli di Bari nel 2011 ed è successo ieri sera nello stesso teatro con il debutto de “Il bordo vertiginoso delle cose”, il melologo per orchestra e due voci recitanti su testo tratto dall’omonimo romanzo di Gianrico Carofiglio – il risultato sia stato diametralmente opposto; quello cioè di una musica che lungi dal ricercare una reale sintonia con la sensibilità più profonda dell’ascoltatore, ottiene solo di scuoterne la percettività sensoriale con effetti sonori che da una parte ne tengono desta l’attenzione, ma dall’altra rischiano, dopo un po’, di porlo in una disposizione d’animo quasi ostile.

A questo aggiungerei il riscontro di uno stridente rapporto fra musica e testo: la sensazione netta è che la musica, nel rifuggire come la peste qualsiasi parvenza di descrittivismo, proceda per conto proprio in forma totalmente autoreferenziale, limitandosi a fornire al testo un ‘tappeto’ sonoro che non solo non offre all’ascolto spunti melodici degni di rilievo, ma per giunta si pone spesso in contraddizione con i contenuti oggettivi o psicologici del testo, assumendo ad esempio toni enfatici o epicamente drammatici a fronte di passaggi narrativi di segno opposto, con l’orchestra che finisce a tratti per prevaricare il testo e la voce di chi lo espone.

Per un’ora intera non è pertanto riuscita a coinvolgermi in alcun modo la vicenda di Enrico – studente di liceo poi diventato uno scrittore di successo in crisi esistenziale – e Celeste, l’affascinante supplente di filosofia di cui è innamorato, colei che incontrerà nuovamente dopo trent’anni e le cui parole erano state la chiave di volta del suo destino di scrittore. Nel ruolo di lui c’era lo stesso Gianrico Carofiglio, apprezzato scrittore ma “pesce fuor d’acqua” su un palcoscenico retto molto meglio dall’attrice professionista Sara Bevilaqua, nel ruolo di Celeste. Lascia altresì perplessi la scelta di decontestualizzare due capitoli da un romanzo, col risultato di un loro indebolimento, piuttosto che ricorrere ad un testo compiuto, concepito ad hoc per un melologo. Encomiabile invece il lavoro svolto dall’Orchestra del Teatro Petruzzelli che, sotto la sapiente direzione di John Axelrod, è riuscita a destreggiarsi egregiamente fra le ostiche pagine musicali di Vacchi. A fine esecuzione applausi di circostanza e qualche ‘’buu’’ all’uscita del compositore sul palcoscenico; successo personale invece per Carofiglio che oltre a giocare in casa (è barese) ha dalla sua un consolidato successo come scrittore.

A risarcire il pubblico di un inizio serata così incerto la seconda parte del programma, vero momento di estasi dei sensi e dello spirito: l’ennesima rivincita di Sergej Rachmaninov su una genia di detrattori, amanti del “cilicio sonoro”, che a suo tempo non gli perdonarono la capacità delle sue opere di riuscire, senza filtri intellettualistici, a conquistare l’ammirazione del pubblico. Il Concerto n. 2 in do minore op. 18 – il più eseguito dei suoi quattro concerti per pianoforte e orchestra – continua ad imporsi per la bellezza ed espressività dei suoi temi, per lo struggente pathos di melodie dalla originale fisionomia, per l’impeto drammatico di alcuni passaggi. A dare voce alla brillante scrittura pianistica – al centro di drammatici sviluppi con l’orchestra nel primo movimento, meravigliosamente elegiaca nel secondo e di eccezionale virtuosismo nell’ultimo – il pianista Benedetto Lupo, da oltre vent’anni preziosissima presenza pugliese sulla scena del pianismo internazionale. Ogni suo concerto è un tripudio di emozioni per la strabiliante capacità di penetrare con profonda partecipazione emotiva nelle fibre più recondite delle pagine che esegue, di cesellare ogni singola nota caricandola di pregnante significato. Perfetta l’intesa con l’Orchestra del Petruzzelli ed il suo direttore John Axelrod, protagonisti di un’esecuzione davvero entusiasmante, come sottolineato dai lunghi e fragorosi applausi del foltissimo pubblico; applausi mutatisi in vera e propria acclamazione nelle ultime battute della serata.

 

 

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