Mangiare da Matti: in un saggio l’analisi socio-alimentare di uno storico manicomio calabrese

Copertina del libro di Davide Costa e Raffaele Serra

Copertina del volume di Davide Costa e Raffaele Serra

di Angela Rubino

È stata pubblicata in Calabria, nel mese di marzo appena trascorso, la prima ricerca in assoluto che analizza i regimi alimentari che caratterizzavano la vita dei pazienti di un ospedale psichiatrico, con focus sul manicomio sorto a Girifalco, in provincia di Catanzaro, nel 1881 e chiuso nel 1978. Il saggio dal titolo “Mangiare da matti: una storia socio-alimentare nel manicomio di Girifalco (e non solo)”, è stato pubblicato dalla casa editrice Editoriale progetto 2000 di Demetrio Guzzardi ed è frutto del lavoro di ricerca svolto all’Archivio di Stato di Catanzaro dal giovane sociologo Davide Costa che, nella stesura, ha collaborato con il professore Raffaele Serra, titolare della Cattedra di Chirurgia Vascolare presso l’Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro. Nel medesimo ateneo, Costa ha conseguito (oltre a quella in sociologia) la laurea in Professioni Sanitarie e Scienze delle Amministrazioni e delle Organizzazioni Complesse e attualmente è Dottorando di Ricerca in Ordine Giuridico ed Economico Europeo.

Il volume, che si apre con un’interessante disamina sul concetto di “malattia mentale” e su come esso sia stato interpretato nei secoli passati, contiene anche una serie di riferimenti utili a comprendere le caratteristiche di uno spaccato della società calabrese di fine ‘800.

Nella prima parte del libro si prende in esame il concetto di malattia mentale e le diverse maniere di affrontare una problematica per la quale la soluzione più opportuna sembrò la creazione di luoghi atti ad “eliminare dalla società soggetti scomodi, imbarazzanti o più semplicemente devianti rispetto alle norme socialmente definite”: i manicomi, appunto.

L’analisi si arricchisce inoltre di una mappatura completa degli ospedali psichiatrici in Italia con localizzazione geografica e data di apertura e chiusura. Il focus del saggio, però, è sicuramente il manicomio di Girifalco, che è stato analizzato con una nuova lente, quella della sociologia alimentare.

Scorcio dell'ex Ospedale Psichiatrico di Girifalco (Cz) - Image source

Scorcio dell’ex Ospedale Psichiatrico di Girifalco (Cz) – Image source

Nel saggio viene delineata la storia delle origini della struttura e del contesto sociale ed ideologico nel quale essa nacque, influenzato anche da teorie di stampo lombrosiano.

Ma partiamo dal luogo e dalla sua ubicazione, uno dei fattori che portò alla scelta di realizzare proprio lì la struttura: Girifalco è un comune di 5000 abitanti situato al centro dell’istmo di Catanzaro e facilmente raggiungibile dai centri urbani più grandi come Catanzaro e Soverato, per quanto concerne il versante ionico, e Lamezia e Vibo Valentia per ciò che attiene quello tirrenico.

Un convento seicentesco, quello dei Frati Minori Riformati, parzialmente distrutto dal terremoto del 1783 sembrò il luogo più idoneo alla creazione di quello che doveva essere un “manicomio rurale”, adeguato alle peculiarità del contesto locale, prettamente agricolo e contadino. All’inizio la popolazione non prese bene la notizia dell’imminente apertura di un manicomio. Una reazione motivata dai pregiudizi nei confronti di una struttura che avrebbe posto gli abitanti del paesino in contatto continuo con pazienti psichiatrici verso i quali all’epoca (fine ‘800) esisteva una forte stigmatizzazione e anche un certo timore. Tuttavia, una volta compreso che sarebbe stato possibile trarre dei vantaggi da questo evento, si passò all’accettazione della sua concretizzazione. Ancora oggi Girifalco è conosciuto in Calabria come “il paese dei pazzi” per via del suo (ormai ex ) ospedale psichiatrico.

Purtroppo l’ospedale psichiatrico di Girifalco nacque sulla scia delle teorie lombrosiane, tanto da divenire, secondo l’antopologo Vito Teti «il luogo simbolico dell’incomprensione che subiscono i calabresi e i meridionali in genere […] e una sede della costruzione scientifica del carattere criminale di un’intera popolazione» (Teti 2011). Nelle relazioni dei direttori della struttura, tutti provenienti dal nord Italia, si riscontra spesso l’uso di un linguaggio stigmatizzante verso la popolazione meridionale alla quale Lombroso e altri autori attribuiscono concetti di degenerazione razziale, inciviltà, inferiorità economica e sociale.

Il direttore Romano Pellegrini, ad esempio, arrivò ad attribuire alle pazzie epilettiche, che affliggevano alcuni pazienti girifalcesi, cause di tipologia razziale. Ecco cosa scriveva nel 1907: «Forme derivate per eccellenza da degenerazione familiare che si connettono così strettamente alle pulsioni di varia misura sparse tra la popolazione […] e che […] il popolo calabrese è convulsionario come la terra che egli calpesta». Elementi lombrosiani sono riscontrabili anche nelle considerazioni di un suo predecessore, Silvio Venturi.

Nelle considerazioni rivolte alle condizioni delle internate, invece, gli assunti lombrosiani lasciano il campo a quelli di tipo sessista dai quali si desume una visione di inferiorità della donna rispetto all’uomo. Secondo le opinioni dei vari esperti in materia, la donna era soggetta a disturbi psichiatrici a causa della sua condizione di emarginazione nella società e ad accrescere il rischio era la condizione di nubilato, vedovanza o la lontananza dei mariti, emigrati per cercare un miglioramento delle condizioni economiche. La protezione assicurata dalla presenza di un coniuge, padre o fratello era, invece, garanzia di un maggiore equilibrio.

Attraverso l’analisi dei registri contabili, nel saggio è stato possibile ricostruire i menù settimanali, incrociando specificatamente i registri contabili e l’allegato relativo al vitto. È importante sottolineare che tutta l’organizzazione dell’ospedale psichiatrico era differenziata a seconda delle classi sociali che venivano distinte in classe contadina, classe artigiana e civile. Con quest’ultima si indicavano i pazienti appartenenti alle classi sociali agiate, per i quali era anche prevista la sistemazione in luoghi separati, oltre ad un diverso trattamento per quanto riguardava la somministrazione degli alimenti. Infatti, ai civili non solo venivano riservati prodotti più pregiati, ma anche un piatto in più. Come si sottolinea nel libro, “la ritualità del menù e la differenziazione sociale a essa connessa, all’interno del manicomio divengono elementi con i quali cogliere categorie sociali e aspetti profondi che probabilmente non sarebbero così rilevabili o tangibili ricorrendo ad altri prodotti umani”.

Insomma, quello di Costa e Serra è un lavoro senza dubbio originale che apre la via alla possibilità di svolgere ulteriori ricerche per approfondire le tante questioni che restano ancora aperte in merito ai trattamenti, ai rapporti tra l’istituzione e l’alimentazione.

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IL CIBO DEI MATTI, Editoriale Progetto 2000, 10 euro

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