La Costiera Amalfitana del poeta Alfonso Gatto

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Campania - Villa Ruffolo, Ravello (Salerno) - Ph. Antonio Felleca - License

UN DIAMANTE PUNTEGGIATO DI PAESINI NATI DA UN SUSSULTO DELLA TERRA CON CASE BIANCHE DI LUNA E IL MARE COME UNA PIAZZA

“La sera amorosa
ha raccolto le logge
per farle salpare,
le case tranquille
sognanti la rosa
vaghezza dei poggi
discendono al mare
in isole, in ville
accanto alle chiese.”

(Alfonso Gatto, “Paesetto di Riviera”)

Nei versi del poeta salernitano, l’incanto della costa d’Amalfi. È ancora possibile, nelle stagioni adatte, riscoprire la magia dei luoghi come lui li vide.

di Alessandra Ottieri

Ci sono almeno due modi di raccontare la Campania oggi, di descriverne le città, le coste, le isole. C’è la Campania del saccheggio politico e della violenza quotidiana raccontata da una pattuglia di giornalisti temerari e impietosamente ricostruita da scrittori e registi dell’ultima generazione; e c’è la Campania oleografica, da “cartolina illustrata”, solare e accogliente, culinaria e musicale, raccontata negli show televisivi e nei depliant delle agenzie di viaggio ad uso di ignari turisti. Ma se la Campania raccontata da Saviano, da Garrone, dal Risi di Fortapàsc m’indigna, mi commuove e immancabilmente brucia come il sale su una ferita, la Campania stereotipata, tutta Vesuvio-sole-mare-pizza, fissata in luoghi comuni duri da sradicare, più irritanti e resistenti dell’erba gramigna, m’infastidisce enormemente e offende il mio buon gusto.

Ma possibile che si debba scegliere per forza tra ‘Gomorra’ e ‘Un posto al sole’; che non ci sia una terza via, un modo alternativo di raccontare questa terra, che non sia la penna tagliente, fredda, del cronista-scrittore oppure la sceneggiatura ingenua e sentimentale di una fiction nazional-popolare? Che fine ha fatto la Campania fertile e operosa dei vigneti e degli oliveti, delle aziende agricole e dell’artigianato di qualità, dei pastifici, dei calzaturifici, dei laboratori di ceramica? Quella che si rifletteva nello sguardo stupefatto dei turisti in carrozzella, nel ricordo degli intellettuali tedeschi e inglesi in cerca di quiete e di tepore mediterraneo, nelle tele-cartoline dei pittori en plein air e nelle parole accorate dei poeti meridionali, che sia sparita per sempre dalla memoria collettiva?

È di questa Campania felix che parlano alcune tra le più incantevoli poesie e prose di Alfonso Gatto: una terra ancora sana e feconda, la cui bellezza struggente non era ancora stata offesa dal turismo di massa, né deturpata dalla violenza ottusa della camorra locale. Gatto è stato il cantore par excellence della costiera amalfitana, nessuno ha saputo descrivere con parole migliori la suggestione di quei luoghi affascinanti e “primitivi”:

gli indigeni non sapevano di avere casa in un diamante e che le finestre delle loro piccole case erano le sfaccettature del magico anello che la montagna si metteva al dito … con un po’ di malta una cazzuola e una scala squadravano e incastonavano case nella montagna, ma non sapevano di costruire un paese cubista prima di Cézanne. Un diamante prezioso – la costiera raccontata da Gatto – punteggiata di paesini nati da un sussulto della terra, con case bianche di luna, con il mare come una piazza rispettato e amato dall’uomo che vi camminerà in punta di piedi.

Comincia con queste parole una splendida prosa memoriale (Le case in fiore, 1951) di Alfonso Gatto, il celebre poeta salernitano. La costiera – con i suoi colori forti, le sue linee, i suoi volumi, i suoi giochi di luce – fu fonte di continua ispirazione per il poeta che ne colse il lirismo intrinseco e le infinite suggestioni pittoriche (perché Gatto, ricordiamolo, fu anche pittore e critico d’arte).

Ma la costiera rappresentata dall’autore di ‘Isola’ e ‘Morto ai paesi’ è un sogno, un affresco sbiadito dal tempo, una cartolina strappata: tra quelle rocce a strapiombo il treno non sarebbe mai passato e non è ancora passato … Sarebbero apparse tra quelle carovaniere di sabbia le prime carrozzelle gialle col cavallo magro e infiocchettato, venendo da Salerno, da Vietri o da Castellammare e portando sul panorama gli Inglesi con le lunette nere agli occhi e l’ombrello di seta grigia. Poi i tedeschi e i Don Chisciotte russi …sarebbero calati con grinta espressionista a far la scena su quella conca marina che dava loro modo di specchiarsi…Inutile dire che su quella strada tortuosa scavata nella roccia, a precipizio sul mare, dove un tempo passavano al trotto muli e carrozzelle agghindate, ora vediamo sfrecciare pullman “gran turismo” e code interminabili e rumorose di auto. Eppure in quei luoghi una volta c’era silenzio … e tutti gli uomini del Nord, anche Ibsen col suo occhialetto, v’andavano ad ascoltare gli organi della natura, l’eco delle navate lunari, l’incantesimo della mezzanotte.

Ma è ancora possibile oggi ascoltare gli organi della natura, guardare le architetture del cielo illuminato dalla luna e perdersi nel suo incantesimo? La magia di quel paesaggio aspro, con i minuscoli paesini chiusi tra cielo e mare, forse non si è persa del tutto. Se ci rechiamo in costiera scegliendo con attenzione l’itinerario e il periodo dell’anno giusti (evitando magari i mesi estivi), possiamo facilmente ritrovarne l’incanto ammirando le case bianche, fresche…case di luna, di serenata, di ‘voce ‘e notte’ incastonate come gemme nella montagna: l’uomo del Sud – che vive a Vietri o a Cetara, a Maiori o ad Atrani – sa di vivere in un rilievo, in una stretta della terra, figura lui stesso in una smisurata e affettuosa prospettiva che non è mai uguale come negli affreschi di Giotto.

Le case della costiera (ma anche delle isole del nostro golfo) hanno la succosa durezza del chicco nel grappolo, sono case-femmina, case feconde, nude, schiette, barocche sormontate da un elemento architettonico – la cupola – il cui significato antropologico-culturale è sfuggito per secoli anche ai visitatori più accorti: la Cupola è un sogno dei nostri paesi. Gli avventurieri della bellezza che s’inebriano di Positano e di Capri, d’Amalfi o di Ravello… credono che la cupola sia soltanto lo schema d’una mezzaluna turca caduta sul campanile. Così, forse, sperano di non arrendersi ad una civiltà, per riconoscere soltanto la natura.

Ecco, è in quest’ultima affermazione, buttata lì quasi per caso, che io rintraccio l’intelligenza, l’acutezza del poeta e, insieme, il suo orgoglio di uomo meridionale che rivendica con ironia, ma senza acredine polemica, la sua appartenenza ad una civiltà antichissima, ad un popolo ingegnoso e avvezzo alla fatica, troppo spesso criticato e ingiustamente offeso. Le parole di Gatto, insomma, ci restituiscono un’immagine possente della nostra terra, il cui ricordo non solo va preservato come una gemma rara, ma va coltivato, messo a frutto, divulgato presso le nuove generazioni per riscoprire l’amore verso un angolo della nostra penisola che ha bisogno, per riscattarsi, di ritrovare la memoria di sé.

FdS – Courtesy of L’ISOLA
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