Il fascino immortale della canzone partenopea nel raffinatissimo ‘affresco’ proposto dal trio Totaro-Naviglio-Di Modugno

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Nell’immagine da sin. il tenore Rosario Totaro, il baritono Giuseppe Naviglio ed il chitarrista Nando Di Modugno

« Così cantava Partenope, che provava un dolore dolce
La sua voce era una freccia che colpì il mio cuore. »

Johann Gottfried Herder, Parthenope, 1796

di Enzo Garofalo

partenope «Napoli è la capitale musicale d’Europa, che vale a dire, del mondo intero»: così scriveva a metà del ‘700 il politico, filosofo e linguista francese Charles de Brosses nelle sue celeberrime ‘’Lettere dall’Italia”; un’istantanea veritiera su una città che con la sua Scuola Musicale ha dominato la scena europea lungo un arco di oltre cinque secoli, dalla prima metà del Cinquecento fino al primo Novecento, raggiungendo il suo culmine nel XVIII secolo, nel corso dell’età barocca, con l’affermazione internazionale dell’opera buffa. In questa lunga epopea uno spazio importante ha avuto il canto, nella duplice manifestazione di espressione spontanea del popolo di Napoli – figlio della leggendaria sirena Partenope, genius loci canoro per eccellenza – e di elaborazione colta da parte di compositori di professione.

A dimostrarlo, con un’ampia escursione attraverso i secoli ed i generi – dalla villanella, all’opera buffa alla canzone classica napoletana – è stato il raffinatissimo concerto tenuto lo scorso 24 settembre nella Sala Colafemmina del monumentale Palazzo de’Mari di Acquaviva delle Fonti (Bari) nell’ambito del Festival di musica antica Anima Mea (18 settembre-13 ottobre) diretto da Gioacchino De Padova. Protagonisti il tenore Rosario Totaro e il baritono Giuseppe Naviglio – due membri di spicco del più celebre ensemble specializzato in musica napoletana antica, i Turchini di Antonio Florio, con cui hanno inciso innumerevoli dischi premiati più volte in Italia e all’estero – accompagnati alla chitarra dal M° Nando Di Modugno docente di chitarra al Conservatorio di Bari e artista versatile aperto ai più diversi repertori musicali. Sicuramente uno degli appuntamenti più attesi in cartellone per via di un ricco programma di brani che aveva già avuto il suo applauditissimo debutto lo scorso agosto a Brindisi, nell’ambito del Festival dedicato al compositore pugliese Leonardo Leo, uno fra i pilastri della Scuola Musicale Napoletana settecentesca. Ripreso con rinnovato successo all’Auditorium Diocesano di Molfetta è quindi approdato ad Acquaviva dove abbiamo avuto la fortuna di seguirlo.

Quello proposto dal trio di artisti è stato un distillato della migliore tradizione canora napoletana, ripercorsa seguendo un itinerario che ha nella passione, nel divertimento, nel dramma – in una parola nei sentimenti umani più autentici ed universali – il suo irresistibile filo conduttore. Per ben cinque secoli Napoli ha creato e trasmesso fascino, nostalgia, malinconia, attraverso il suo canto le cui origini si fanno risalire già al XV secolo con la diffusione del napoletano quale lingua ufficiale del Regno, raggiungendo però un primo importante picco di diffusione nel ‘500 allorquando, con la “villanella alla napoletana” conquistò l’Europa ammaliata da questo genere di canzone profana d’argomento rustico, comico o satirico, specchio di sentimenti popolari spesso legati ad una visione ottimistica della vita.

Ed è proprio partendo da alcuni esempi di questo genere canoro che ha preso l’abbrivio un memorabile concerto che ha nella varietà di carattere uno dei suoi grandi punti di forza. Varietà assecondata con maestria da Totaro e Naviglio – le cui indiscusse qualità vocali si coniugano con doti interpretative ed attoriali di prim’ordine di cui danno prova da anni sui palcoscenici operistici e nelle sale da concerto di tutto il mondo – e dal M° Di Modugno la cui mirabile maestria chitarristica ha garantito perfetto equilibrio all’intera performance del trio.

Dopo le prime villanelle anonime pubblicate nella Napoli d’inizio Cinquecento, e quelle di autori coevi come Da Nola, Scandello e di Maio, un salto epocale di oltre tre secoli – quanto basta per alludere alla continuità di una tradizione che non ha eguali nel mondo – ha tuffato il pubblico nella avvolgente melodia del lamento d’amore racchiuso in Tu ca nun chiagne, il grande classico di Ernesto De Curtis stavolta proposto in una trascrizione per chitarra sola. Si è ripreso quindi il filo cronologico con uno spassoso brano vocale seicentesco del musicista-giurista Michelangelo Faggioli – considerato uno dei padri dell’opera buffa in dialetto napoletano – per arrivare al Settecento di Leonardo Leo, con la sua struggente Pare che baa cantanno (tratta dall’opera Le fente zingare, del 1724), e a Giovanni Battista Pergolesi, il giovane compositore-prodigio che nella sua brevissima esistenza è riuscito a comporre anche uno ‘Scherzo ‘ sui Cappuccini di Pozzuoli, presso il cui convento morì nel 1736: l’esilarante e maliziosa Venerabilis barba inculta cappuccinorum.

Dopo una elegantissima tarantella strumentale del madrileno Santiago de Murcia è stata la volta del grande Leonardo Vinci con un’aria tratta dall’opera Lo cecato fauzo del 1719 e di un doveroso omaggio a Domenico Cimarosa, prima di approdare infine alla canzone napoletana classica, quella cioè più nota al pubblico odierno, avendo rappresentato per circa un secolo – fra Otto e Novecento – una pietra miliare della canzone italiana ed uno dei repertori più conosciuti all’estero. Ecco quindi brani immortali come “Te voglio bene assaje”, “A vucchella”, “Marechiaro”, “Michelemmà” e altri titoli di Labriola, Valente, Tosti oltre a una ritmatissima e teatrale tammurriata di Mario Pilati, “Na nenna Setteciento se chiammava”, che ha concluso lo splendido concerto fra un vero trionfo di applausi, con richiesta di bis subito esaudita con la celebre Passione e la replica della tammurriata.

 

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