Gianni Berengo Gardin. L’incontro a Bari con un Maestro della Fotografia: «Ho iniziato a fotografare anche per vincere la timidezza»

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Puglia – Il fotografo Gianni Berengo Gardin, ospite al Politecnico di Bari, 2014 – Ph. © Ferruccio Cornicello – All rights reserved Feart ®

di Enzo Garofalo

Pensate ad una carriera lunga mezzo secolo, aggiungete la pubblicazione di ben 250 libri ed immaginate un nuovo libro che li racconti tutti ripercorrendone genesi, contenuti e immagini in una sorta di grande catalogo-macchina del tempo. Otterrete la splendido percorso di vita e di lavoro di uno dei più grandi maestri italiani della Fotografia: Gianni Berengo Gardin, oggi 84enne. Lo abbiamo incontrato ieri in una gremita sala conferenze del Politecnico di Bari dov’è stato ospite del Museo della Fotografia proprio per la presentazione de “Il libro dei libri”, il volume dedicato ai suoi cinquant’anni di fotografia. Come ha tenuto infatti a sottolineare, il libro non è suo ma è l’omaggio che Bruno Carbone ha voluto tributargli per ripercorrere un patrimonio unico di immagini, voci, sguardi, visioni. Di ciascun libro di Berengo Gardin il volume di Carbone, edito da Contrasto con un saggio di Peter Galassi (311 pp. – 39 €), presenta una scheda tecnica, riprendendo spesso doppie pagine che ne mostrano immagini ed impaginazione, oltre a citazioni d’autore o commenti che consentono di contestualizzare ogni singolo volume.

Ad accogliere Berengo Gardin c’erano Pio Meledandri, direttore del Museo barese, Cosmo Laera, affermato fotografo pugliese docente all’Accademia di Brera e Giancarlo Fiorito, patron dell’omonima azienda che di recente ha lanciato a Bari l’ F-Project, una scuola di fotografia e cinematografia con corsi tenuti da esperti del settore.

Il libro presentato si è rivelato uno scrigno di sollecitazioni a conoscere più a fondo l’opera di un artista versatile la cui carriera è iniziata nel 1954 ed ha attraversato un lunghissimo lasso di tempo facendo di lui uno dei più significativi testimoni della nostra epoca. Ma è anche specchio di un gusto editoriale che muta col tempo, di un design che ricerca sempre nuovi percorsi, di rapporti importanti e fecondi che Berengo Gardin ha avuto con intellettuali che hanno scritto per lui o di lui (è il caso di Mario Soldati, Cesare Zavattini, Federico Zeri, Bruno Zevi, Renzo Piano, Giorgio Bassani e diversi altri), di incontri con altri fotografi che hanno rappresentato per lui un punto di riferimento (come ad es. l’amatissimo Henri Cartier-Bresson) o con cui ha semplicemente avuto modo di collaborare in modo proficuo.

E’ sempre emozionante sentir parlare un Maestro vero, perché ci si accorge che non ha bisogno di infingimenti, strategie o edulcorazioni verbali per raccontare la propria arte. Non ha lacune da colmare né mediocrità da compensare con le parole. La conosce dall’interno e per lui è la cosa più naturale del mondo esercitarla così come parlarne davanti ad un pubblico composto da profani oltre che da addetti ai lavori. Ci si rende così conto che al di là del dato strettamente tecnico da cui non si può prescindere, i segreti di un’arte come la fotografia in fondo sono riconducibili a poche formule essenziali: “si fotografa non con lo strumento meccanico, ma con l’occhio, con la mente e col cuore”, insegnamento chiave del quale Berengo Gardin si è detto debitore verso Cartier-Bresson e la cui veridicità ha a sua volta avuto modo di constatare direttamente sul campo; oppure che “occorre inseguire non la ‘bella’ immagine – ossia ben composta ma spesso vuota di significato – ma una ‘buona’ foto, vale a dire un’immagine che sappia raccontare qualcosa, trasmettere un’emozione, anche se non del tutto impeccabile dal punto di vista tecnico”.

Ripercorrere 50 anni di carriera non è facile per Gianni Berengo Gardin, avendo alle spalle un archivio di un milione e mezzo di immagini pronto ad essere consegnato ai posteri e della cui digitalizzazione si sta occupando la Fondazione Forma di Milano. Ed allora si avvale anch’egli del volume di Carbone per rievocarne alcune tappe proprio sulla scia di taluni dei numerosi libri pubblicati: “Carbone ha praticamente raccolto tutti i miei libri, molti dei quali neppure io ho più, ed alcuni dei quali avevo persino dimenticato di aver pubblicato” – osserva sornione il Maestro. “Di questi 250 libri, una cinquantina sono stati di grande importanza nel momento in cui sono apparsi, gli altri 200 invece molto probabilmente serviranno fra decenni per mostrare come si viveva in questo nostro tempo”. Ed il termine “testimone” è quello che il fotografo ama soprattutto sentire associato al suo lavoro: “Mi sento un testimone della mia epoca e non un artista o un creativo. I veri creativi sono coloro che si pongono davanti al mio obiettivo”. Respinge invece l’epiteto di “artista” non perché ritenga che con la fotografia non si possa fare vera arte ma per non correre il rischio di essere confuso con certi mistificatori di cui – sostiene – l’arte contemporanea è piena.

Il primo libro a cui attribuisce un’importanza determinante per la sua carriera è Venise des saisons, opera con cui il fotografo abbraccia la logica del reportage per mai più abbandonarla: “E’ un lavoro tutto in b/n che non ha nulla della Veneza cartolinesca che tutti conosciamo. Un libro sui veneziani più che sulla città in senso stretto. Fu rifiutato da tutti gli editori italiani a cui mi rivolsi. Grazie a Bruno Zevi feci però una mostra a Londra e in quell’occasione il lavoro fu notato dall’editore svizzero Albert Mermoud delle Editions Clairefontaine-Guilde du livre di Losanna, una fra le case editrici più prestigiose d’Europa, e così uscì nel 1965 in tre edizioni con i testi di Bassani e Soldati. Fu uno schiaffo per gli editori italiani ed un record produttivo perché uscì in 10 mila copie, laddove la media per un libro fotografico non supera le 1500 copie”. Il maestro ha sottolineato quanto questo incontro fortuito con un editore illuminato abbia fortemente segnato la sua carriera, perché gli fece acquisire credenziali impareggiabili per andare avanti.

Toccante poi il ricordo del reportage “Morire di classe” realizzato con Carla Cerati su ispirazione di Franco Basaglia, lo psichiatra che volle l’omonima Legge (la n. 180/1978) con cui si introdusse un’importante revisione negli ospedali psichiatrici in Italia e promosse notevoli trasformazioni nei trattamenti riservati ai pazienti. “Quella di Basaglia fu una vera denuncia sulle condizioni disumane, da lager, in cui vivevano allora i malati psichiatrici. A quel tempo poteva accadere che si finisse in manicomio per un semplice esaurimento e che si fosse sottoposti a trattamenti sproporzionati a causa dei quali i pazienti poi peggioravano in modo disastroso. Purtroppo Basaglia morì prima di aver potuto sviluppare tutte le potenzialità della sua legge. Spero che a nessuno venga mai in mente di ripristinare un sistema come quello dei manicomi di allora.” E’ forte nelle parole di Berengo Gardin, nel tono con cui le pronuncia, il grado di coinvolgimento provato nell’affrontare temi di tale rilievo sociale, sentimento che egli attribuisce alla sua antica “fede” comunista; una visione che in anni più recenti gli ha fatto ad esempio mal digerire i tratti di un sistema economico italiano in cui l’operaio è sempre meno un essere umano e sempre più un mero strumento di produzione.

Da questo punto di vista non ha potuto fare a meno di ricordare una figura di imprenditore, a suo avviso illuminata, come quella di Adriano Olivetti – a cui fu molto legato – per il modo sensibile e umano con cui trattava i dipendenti: “Ai suoi operai, quasi tutti anche contadini, concedeva una settimana di permesso speciale per permettere loro di fare il raccolto, così come promuoveva mostre d’arte direttamente in fabbrica perché riteneva che i lavoratori a fine giornata fossero stanchi e quindi poco propensi ad andare in un museo…”

Il valore sociale attribuito alla fotografia, alternato a quello documentaristico-illustrativo pur praticato durante il quindicennio di collaborazione con il Touring Club Italiano, è alla base anche del suo lavoro sul borgo emiliano di Luzzara. Già oggetto del libro ‘’Un paese’’ curato da Cesare Zavattini con le immagini del fotografo americano Paul Strand, Luzzara torna in auge con Berengo Gardin,  sempre con la complicità di Zavattini, in “Un paese: vent’anni dopo”, edito dalla Einaudi; due approcci diversi, col tempo a fare da ulteriore spartiacque: “Il mio – ha osservato il fotografo – è stato un approccio di tipo sociale, mentre Strand ha rivolto a Luzzara uno sguardo di carattere sostanzialmente lirico. Due modi distinti, ugualmente legittimi, di raccontare lo stesso luogo”.

Sollecitato dal pubblico in merito al suo rapporto con la tecnica fotografica digitale, Berengo Gardin ha dichiarato di riconoscerle due soli vantaggi: “la possibilità di spedire in tempo reale un’immagine all’altro capo del mondo – ma sinceramente non è che poi la cosa mi interessi più di tanto – e la regolazione degli ISO. Il resto sono solo svantaggi. Credo che la pellicola sia più plastica e in quanto tale decisamente superiore al digitale”. Durissimo poi il giudizio sul diffuso utilizzo dei programmi di fotoritocco: “Abolirei per legge Photoshop. Di recente abbiamo dovuto respingere le foto di un concorso sul mondo delle fattorie toscane, perché erano tutte falsate. Mi può anche stare bene l’utilizzo di un programma del genere per rimuovere le rughe dal viso di una star, ma trovo decisamente deprecabile arrivare a falsare la realtà di un luogo o di un avvenimento. In fondo la gente crede ancora che una fotografia rispecchi la realtà, quindi sarebbe profondamente ingiusto ingannarla. Ultimamente alcuni reporter in America si sono giocati la carriera per aver alterato oltre modo la realtà. In Francia hanno proposto che immagini di questo tipo siano dichiarate con un apposito contrassegno affinché possa riconoscersi l’intervento ‘’creativo” che nulla a che fare con la vera fotografia”.

Altri ricordi, altri libri: dallo straordinario periodo formativo presso il celebre settimanale Il Mondo diretto da Mario Pannunzio a un importante lavoro su L’Aquila, “L’Aquila prima e dopo”, un ritratto del capoluogo abruzzese prima e dopo il devastante terremoto del 2009, al libro “Il racconto del riso” su alcune cascine del vercellese dove “il riso viene trattato con tecniche industriali contemporanee ma dove si conservano con amore antiche attrezzature risalenti ai tempi in cui le mondine affollavano questi luoghi”; e poi ancora un volume sullo storico Caffè Florian con sede a Venezia in Piazza San Marco, e uno dedicato al sontuoso Palazzo Madama di Torino realizzato in occasione del 150º anniversario del Museo Civico che oggi vi è ospitato.

Interrogato sul suo rapporto con la fotografia a colori, Berengo Gardin ha ammesso di preferire di gran lunga il bianco e nero: “Io sono nato e vissuto per gran parte in un periodo nel quale la rappresentazione visiva è stata dominata dal bianco e nero, ecco perché mi è così congeniale; ma questo non è l’unico motivo: trovo che il b/n sia più intenso e che il colore costituisca un elemento di distrazione; provate a farci caso e noterete come eliminando il colore vengano maggiormente in risalto soprattutto le linee dei volti e tutto ciò che sono in grado di esprimere”.

Profondamente umana infine la risposta di Berengo Gardin a una ragazza che gli chiedeva quale fosse stata la motivazione forte che lo ha portato sulla strada della fotografia: “Certamente la passione per questo mezzo espressivo, ma anche la necessità di fronteggiare la mia timidezza. Fotografare mi ha permesso e mi permette di “dire” ciò che non saprei dire con le parole”.

 

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