Domenico Antonio Giovinazzi, il pugliese che insegnò l’italiano a Goethe

Johann Heinrich Wilhelm Tischbein - Goethe nella campagna romana, Städel-Museum, Francoforte

Johann Heinrich Wilhelm Tischbein – Goethe nella campagna romana, 1787 – Städel-Museum, Francoforte

di Redazione FdS

Georg Melchior Kraus - Johann Wolgang Goethe, 1775-76 - Goethe Museum, Francoforte

Georg Melchior Kraus – Il giovane Johann Wolgang Goethe, 1775-76 – Goethe Museum, Francoforte

“Anche a me qui sembra di essere un altro. Dunque le cose sono due: o ero pazzo prima di giungere qui, oppure lo sono adesso.” E’ questa una delle frasi-chiave pronunciate dal grande poeta e drammaturgo tedesco Johann Wolfgang Goethe al cospetto della bellezza di Napoli, emblema di quell’Italia che egli conobbe tra il 3 settembre 1786 ed il 18 giugno 1788, meta di un viaggio poi rievocato nel celebre “diario” Italianische Reise (Viaggio in Italia) pubblicato in più volumi a partire dal 1816. Un rapporto, quello di Goethe con l’Italia, che lo avrebbe trasformato interiormente, ripercuotendosi anche sulla sua produzione letteraria: nuovi stimoli e nuovi orizzonti procurò infatti alla sua vena poetica il contatto con la cultura e l’arte italiana, soprattutto quella classica, convogliando i fremiti e le tensioni di una autentica passione in forme di superiore equilibrio.

In pochi sanno quanto fosse remota l’origine dell’interesse di Goethe per l’Italia – già suo padre Johann Caspar era stato autore di un Viaggio in Italia – ma soprattutto è pressochè ignoto ai più che il primo contatto di Goethe con la lingua italiana – strumento fondamentale, insieme al latino, per comprenderne la cultura – si deve ad un pugliese, il monaco domenicano Giovanni Antonio Giovinazzi poi convertitosi alla religione riformata.

La storia di questo rapporto fra Goethe e Giovinazzi è la dimostrazione di come il destino sia bizzarro artefice di incontri tra le persone più disparate e distanti quanto a origine geografica, sociale e formazione culturale, sodalizi che per quanto brevi lasciano un’impronta significativa nella vita di chi vi è coinvolto. L’impegno di illustri studiosi come Elisabeth Mentzel e Benedetto Croce ha consentito, negli anni ’30 del XX secolo, di ricostruirne i particolari che talora hanno dell’avventuroso.

”Un vecchio e gioviale italiano, maestro di lingua, chiamato Giovinazzi”: così  lo definisce Goethe nella sua autobiografia “Poesia e verità”, rievocando gli anni della propria fanciullezza. L’uomo sta aiutando suo padre, Johann Caspar, a stendere in italiano la cronaca del viaggio in Italia fatto qualche anno prima. E Goethe aggiunge: “Altresì il vecchio cantava non male e mia madre doveva acconciarsi ad accompagnare lui e sé stessa quotidianamente al pianoforte per modo che io appresi a conoscere [l’aria] ”Solitario bosco ombroso” e la seppi a mente prima ancora di intenderne il senso”.

Questi cenni furono la traccia principale da cui gli storici presero le mosse per identificare le origini del Giovinazzi che, assiduo frequentatore di casa Goethe, insegnò la lingua italiana al giovane Wolfgang (all’epoca di circa sei anni) e alla sorella Cornelia. Le prime notizie emersero dagli archivi di Francoforte: risultò che fosse stato monaco domenicano a Napoli, città dalla quale si allontanò verso il nord Europa per aderire alla religione evangelica. L’Archivio di Stato di Napoli al contrario non restituì alcuna testimonianza, segno del fatto che probabilmente il Giovinazzi aveva dichiarato alle autorità francofortesi di essere originario di questa città per darsi lustro, mentre in realtà doveva provenire da qualche piccolo monastero di provincia.

Il convento settecentesco di San Domenico, a Putignano (Bari)

Il convento settecentesco di San Domenico, a Putignano (Bari)

Ulteriori ricerche del Croce presso la Casa Generalizia dell’ordine domenicano a Roma consentirono finalmente di recuperare stralci di un antico carteggio del Generale dell’Ordine con il Padre provinciale di Puglia, dal quale si evince che nel 1717 il Giovinazzi si trovava nel convento di S. Domenico in Putignano (Bari). A quel tempo questa cittadina vantava già settemila abitanti, varie residenze nobiliari ed un territorio ricco di attività agricole. Da secoli era feudo dei Cavalieri gerosolimitani di Rodi e poi di Malta, a seguito di una donazione papale durante il Regno angioino. Il legame con i Cavalieri aveva determinato nel 1571 la partecipazione sulle galee maltesi, di una compagnia di soldati putignanesi nella battaglia di Lepanto contro i turchi. Il monastero di S. Domenico si trovava fuori dalle mura cittadine, così come quelli di altri tre ordini monastici; abitato dal 1660, era strutturato in due piani ed un chiostro, utilizzati ancora all’epoca delle ricerche del Croce (1938) come orfanotrofio e ospedale.

LE ORIGINI PUGLIESI

Dalle indagini nei libri parrocchiali dei battezzati emerse che, sebbene vissuto sempre a Putignano, Domenico Antonio Giovinazzi era nato a Castellaneta (Taranto) il 14 aprile 1693 da Andrea e Felice Antonia Mazaracchio. Nel 1717 aveva dunque 24 anni ed era già stato ordinato sacerdote. Oltre che “padre” viene definito nei documenti romani anche “collegiale”, cioè studente che, al termine dei corsi, avrebbe potuto ambire al grado di “lettore”. Il convento era dunque anche un centro di studi; possedeva una biblioteca di svariati volumi e per nulla esiguo era il numero dei frati che lo abitavano, la cui vita quotidiana ruotava principalmente intorno alla chiesa alla quale introduce un portale seicentesco ed è dotata di un coro ligneo in stile barocco dove, per dirla col Croce, ”padre Domenico, guardando il gruppo della “Deposizione” che è di contro, salmeggiava prima di cantare a Francoforte “Solitario bosco ombroso”; inoltre vi era un organo “sul quale egli forse si esercitò nella musica che prediligeva”.

Christoph Heinrich Kniep - Il golfo di Napoli dal Vesuvio, 1787

Christoph Heinrich Kniep – Il golfo di Napoli visto dal Vesuvio, 1787

A turbare la ordinaria vita di un frate del XVIII secolo vi fu tuttavia il fatto che nel 1717 il Giovinazzi venne rinchiuso nel carcere del convento con l’accusa di un “eccesso” non meglio precisato nelle sommarie notizie in proposito contenute nel carteggio dei superiori, ma che doveva essere certamente grave, considerato che la pena del carcere si applicava, secondo la Regola,”in casibus gravioribus” (nei casi più gravi). Il carcere consisteva in un’ampia stanza con finestra posta in alto, situata a pian terreno e accessibile all’epoca tramite una scaletta accanto alla sacrestia. Da questo luogo, alla fine del 1717, il frate scardinando l’inferriata fuggì e, attraverso la via di Gioia del Colle si diresse verso Napoli dove si rifugiò presso un altro convento. Prima di darsi alla macchia lasciò un biglietto nel quale presumibilmente protestava contro l’iniquità della pena inflittagli.Vari furono i tentativi dei suoi superiori sia romani che pugliesi,tra il 1718 e 1719, di convincere il fuggiasco a rientrare a Putignano dove avrebbe avuto modo di giustificarsi circa l’accusa mossagli, evitando nel frattempo sia il carcere sia di aggravare ulteriormente la su posizione, avendo altresì la possibilità di patteggiare un castigo, ove necessario. Giovinazzi rifiutò chiedendo invece licenza di recarsi a Roma per esservi assolto da ogni accusa.Tale richiesta fu respinta e, di fronte ad una nuova intimazione di tornare a Putignano a piede libero, per esporre le sue ragioni, il frate si negò per l’ennesima volta.E’ possibile che egli tergiversasse maturando nel frattempo il suo piano di fuga definitiva dall’Italia.

DESTINAZIONE GERMANIA. L’ARRIVO A CASA GOETHE

Domenico Antonio Giovinazzi, il cui cammino attraverso l’Europa lo avrebbe fatto approdare a casa Goethe, era dunque fuggito dall’Italia lasciandosi alle spalle un’oscura vicenda. Alle autorità francofortesi avrebbe tempo dopo dichiarato che, siccome già da tempo avvertiva in sé “una singolare spinta interna verso la religione protestante” aveva deciso “il volontario abbandono della vita del chiostro” lasciando così il convento di Napoli che lo ospitava. E’ difficile stabilire, fa notare il Croce, se la sua fosse solo una scelta di comodo oppure se si inserisse in quel clima di ribellione alle perduranti forme seicentesche della religiosità; l’avvento del razionalismo e l’opposizione contro i Gesuiti, avevano infatti riattivato la corrente di emigrazione dall’Italia verso i paesi protestanti, di molti vivaci intelletti, spesso meridionali.

Sconosciute sono le tappe italiane del Giovinazzi dopo la fuga da Napoli, mentre tra il 1719 e il 1723 lo troviamo in Svizzera, nei Grigioni e poi a Zurigo. Qui chiese di essere istruito nella religione riformata e, ammesso alla Camera di Proseliti fece pubblica professione di fede. Poco tempo dopo sposò una certa Giuditta originaria di Neuchatel, di sette anni più anziana di lui. Gli scarsi mezzi di sussistenza e la già numerosa presenza di altri proseliti non gli consentirono di stabilirsi a Zurigo, per cui, munito di credenziali, alla fine del 1723, giunse con la moglie, in condizioni di estrema povertà, a Francoforte, città ricca e vivace.

Numerose erano le famiglie italiane qui trasferitesi per ragioni di commercio e diffuso vi era l’interesse verso la cultura italiana. In un tale contesto il Giovinazzi si rese conto che l’insegnamento della sua lingua madre fosse la attività da privilegiare, sia per la scarsità dei concorrenti sia per via della sua superiore formazione culturale, essendo egli istruito in filosofia, nelle lingue e in altre scienze. Chiese così il permesso di stabilirsi in città sia come proselito sia come maestro di lingue, formulando una bizzarra supplica ai “nobilissimi, rigidamente giusti, altissimi, altamente ben provvidenti, particolarmente magnanimi e onoratissimi sculdascio, borgomastro e Consiglio della città di Francoforte” e sottolineando di volersi guadagnare da vivere col lavoro senza danneggiare nessuno. Sosteneva inoltre che la sua permanenza in quella città avrebbe rinsaldato il suo legame con la religione evangelica di cui si dichiarava strenuo fedele.

Purtroppo le autorità che cercavano di difendere la città dai numerosi avventurieri che vi approdavano (e il suo passato certo non gli fu di aiuto) negarono il permesso. A tal proposito, non scarso peso ebbe forse il fatto che egli non appartenesse propriamente alla chiesa luterana. Presentò ben altre due suppliche in cui vantava di avere vari scolari di diverse condizioni sociali e ingigantiva il proprio curriculum di studi, dichiarandosi già docente di teologia in Italia, sebbene in realtà al tempo della fuga fosse solo studente. L’esito fu ancora negativo.

Frattanto continuò a lavorare protetto da personaggi di rilievo, i quali gli consigliarono in seguito di avanzare di persona la richiesta al borgomastro, che pare fosse in quel tempo una persona più benevola. Così agli inizi del 1726 ebbe finalmente licenza di soggiorno. Divenne allora il più quotato maestro di italiano della città, come provato sia dall’entità delle imposte versate, sia dal fatto che, vedovo dal ’35, chiesta la mano della giovane Elisabetta Van Der Werff (figlia di un gioielliere e di origine olandese) ed ottenne gratuitamente, sebbene forestiero e di religione riformata, che il matrimonio fosse celebrato in casa e col rito luterano (la fidanzata, in quei giorni, non versava in buone condizioni di salute); inoltre la cerimonia fu officiata da un personaggio locale di spicco, il parroco Stark: segno tutto ciò della grande considerazione conquistata.

In quegli anni, Giovinazzi finisce così con l’approdare anche in casa Goethe. Infatti varie circostanze sembrano confermare la notizia che egli fosse già stato maestro di italiano di Goethe padre che nel suo “Viaggio in Italia” accenna al “mio maestro di italiano”; quando l’ex frate iniziò il suo insegnamento a Francoforte, Goethe padre era un ragazzino di 14 anni e, quando da adulto venne in Italia diversi anni prima del suo più celebre figlio, Giovinazzi già da sedici anni era il miglior maestro di italiano sulla piazza. Ciò spiega anche come costui, rimasto in relazione con l’ex allievo e accolto nella sua casa, collaborasse poi alla stesura del diario di viaggio e avesse l’incarico di insegnare l’italiano anche a J. Wolfgang Goethe e alla sorella Cornelia. La famiglia Goethe veniva inoltre allietata dalla particolare abilità e passione di quest’uomo nell’eseguire arie d’opera, come quella famosa del Rolli sopra citata. Secondo il Croce tali arie italiane non rimasero prive di efficacia sui lieder (canti poetici) giovanili di Goethe. Quest’ultimo ricevette lezioni fino ai tredici anni, quando il Giovinazzi era ormai quasi settantenne.

E’ impossibile dire se l’ex frate putignanese allora serbasse ancora relazioni con i suoi parenti pugliesi o se fosse stato da costoro rinnegato per via dei suoi torbidi trascorsi. In quegli stessi anni emergeva agli allori della cronaca culturale italiana un figlio di un suo cugino,Vito Maria Giovinazzi, di Castellaneta, gesuita, insegnante, scrittore di versi latini e storiografo celebratissimo per la scoperta di un frammento inedito delle “Storie” di Tito Livio. Dopo il 1762, non abbiamo invece più notizie di Domenico Giovinazzi da vivo. Solo molto anni dopo il magistrato che vigilava sui forestieri residenti lo cita per dire che “era da molto tempo morto nella miseria”. La seconda moglie viveva ancora nel 1780 forse sussidiata dalla comunità olandese.

Il vecchio arpista girovago del Wilhelm Meister forse ispirato dalla figura del Giovinazzi, incisione 1871

Il vecchio arpista girovago del Wilhelm Meister forse ispirato dalla figura del Giovinazzi, incisione 1871

Grazie alle lezioni del Giovinazzi, allorché Goethe si trasferì diciassettenne a Lipsia come studente, fu in grado di comporre versi e di scrivere lettere ad amici, in italiano. Pensò persino di scrivere un libretto d’opera,“La sposa rapita” e a sua sorella consigliava libri italiani da leggere. Le lezioni del vecchio maestro furono le basi fondamentali di uno studio della lingua poi proseguito autonomamente, che gli sarebbe stato utilissimo per il suo viaggio in Italia nonché per le traduzioni della “Vita” di Cellini e dell’ode napoleonica del Manzoni. Ma di questo curioso personaggio che Goethe aveva visto frequentare la sua casa per dieci anni forse rimane traccia anche in un’altra sua opera oltre che nella autobiografia. Si tratta del “Wilhelm Meister”: forse Goethe elaborando il ricordo di quel vecchio, col suo carattere gioviale, le sue ariette d’opera, il suo passato di frate per nulla “ortodosso”, le sue esperienze di vita avvolte dal mistero, ne ricavò la figura del vecchio arpista girovago per la Germania, che poi si rivela proveniente da un convento italiano, protagonista di una tragica storia d’amore e padre di Mignon, la delicata fanciulla che intona il celebre canto “Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?”. Forse anche il misterioso grave “eccesso” di cui il Giovinazzi fu accusato a Putignano, celava una vicenda inconfessabile, magari una passione d’amore finita in tragedia. Un enigma: tra “poesia e verità”.

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