
Andrea Mantegna, Deposizione di Cristo, 1490-1500,
Realizzato su richiesta di un committente napoletano per la Basilica di S. Domenico Maggiore, per qualche ragione il dipinto era finito nel Santuario di Pompei. Dopo un attento studio e restauro è in mostra ai Musei Vaticani fino al 6 settembre 2025
di Redazione FdS
Se si pensa alle opere a soggetto sacro di Andrea Mantegna (1431-1506), uno dei più grandi maestri dell’arte rinascimentale italiana, l’immaginario collettivo corre innanzitutto al Compianto sul Cristo morto (1475-78) custodito presso la pinacoteca milanese di Brera, straordinaria tempera su tela che ammalia l’osservatore per il vertiginoso scorcio prospettico della figura del Cristo disteso sulla lastra di pietra utilizzata per prepararlo alla sepoltura. In pochi però sanno che negli ultimi anni della sua vita l’artista si era cimentato – sia pur seguendo stilemi più tradizionali – nella trattazione di un soggetto di stretta attinenza tematica, quello cioè che vede il Cristo – deposto dalla croce e circondato da varie figure affrante – trasportato su un lenzuolo verso il luogo di sepoltura: una scena di grande intensità drammatica e potenza espressiva che ci viene restituita da un dipinto considerato perduto e fortuitamente ritrovato nel 2020. Si tratta della Deposizione di Cristo localizzata nel pontificio santuario della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei grazie all’intuito di Stefano De Mieri, studioso dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli che, imbattutosi in una immagine digitale dell’opera pubblicata dal Santuario di Pompei sul sito della CEI, ne ha riconosciuto la paternità grazie al confronto con due copie del dipinto identificate nel 1956 da Ferdinando Bologna.
Alcuni sopralluoghi di esperti e due anni di indagini diagnostiche affidate nel 2022 al Gabinetto di ricerche scientifiche dei Musei Vaticani su impulso di Mons. Tommaso Caputo, Arcivescovo di Pompei e Delegato pontificio del Santuario, hanno permesso di riconoscere con certezza in quel dipinto l’originale scomparso di Andrea Mantegna. Il lungo e delicato restauro è stato eseguito da Lorenza D’Alessandro e Giorgio Capriotti, in stretta sinergia con la Direzione dei Musei e dei Beni Culturali, il Reparto per l’Arte dei secoli XV-XVI, il Laboratorio di Restauro Dipinti e Materiali lignei e il succitato Gabinetto di Ricerche Scientifiche dei Musei Vaticani. Dallo scorso marzo (e fino al 6 settembre 2025) il dipinto è protagonista della mostra “Il Mantegna di Pompei. Un capolavoro ritrovato” allestita nella Sala XVII della Pinacoteca Vaticana, la cui visita è compresa nel biglietto di ingresso ai Musei Vaticani. L’iniziativa espositiva – che include la proiezione di un video sul complesso intervento di restauro – è accompagnata da un catalogo pubblicato da Edizioni Musei Vaticani, a cura della direttrice Barbara Jatta e di Fabrizio Biferali, curatore del Reparto per l’Arte dei secoli XV-XVI dello stesso museo. Al termine della mostra il dipinto tornerà a Pompei e sarà collocato in un nuovo spazio museale allestito all’interno del Santuario.
Si ritiene che l’opera sia stata realizzata dal Mantegna verso la fine delle sua carriera, nell’ultimo scorcio del Quattrocento o agli inizi del Cinquecento, su richiesta di un committente napoletano con grande probabilità legato alla casa reale aragonese (forse lo stesso re di Napoli, Federico d’Aragona). Il dipinto – una tempera grassa su tela di lino – risultava documentato nel XVI secolo nella Basilica di San Domenico Maggiore a Napoli, ma attraverso vicissitudini ad oggi ignote è approdato nel Santuario mariano di Pompei. Una delle ultime testimonianze – come confermato dalle complementari attività di documentazione storica svolte dopo il ritrovamento – è una lettera datata 20 marzo 1524 che l’umanista partenopeo Pietro Summonte scrisse al collezionista veneziano Marcantonio Michiel parlandogli con entuasismo di una ”cona” (icona) “dov’è Nostro Signore levato dalla croce e posto in un lenzolo, di mano del Mantegna, al quale, come sapete miglior di noi altri, è tenuta assai la pictura, poiché da lui cominciò ad rinovarsi la antiquità, ad cui successe il vostro Ioan Bellino”. Successivamente calò sul dipinto un oblio tale da spingere in molti a metterne in dubbio la stessa esistenza.
Avvenuto il ritrovamento a Pompei, si constatò – racconta Fabrizio Biferali, curatore del Reparto per l’Arte dei secoli XV-XVI dei Musei Vaticani -, come il dipinto fosse rimasto esposto, forse da metà Ottocento, in un corridoio appartato del Santuario, in mezzo ad altre opere e senza alcuna particolare visibilità. Gli oltre due anni di analisi, restauro e studi hanno però permesso di pervenire alla prestigiosa attribuzione: “il dipinto – spiega – ha tutta una serie di elementi stilistici e iconografici che richiamano opere del Mantegna del 1490-1495-1500, a partire ad esempio dalle figure laterali, tagliate volutamente con questa sorta di “close up” cinematografico, che è tipico di Andrea Mantegna a partire dal “Compianto sul Cristo Morto” di Brera, uno dei suoi capolavori. Anche alcuni particolari del paesaggio sono indicativi: la Gerusalemme raffigurata sullo sfondo della scena è trasfigurata attraverso il linguggio antichizzante proprio del Mantegna, con una serie di edifici sia rinascimentali che classici, che egli ebbe modo di vedere nella sua Padova e a Roma quando nel 1488-90 era in Vaticano per affrescare la Cappella del Belvedere. Ci troviamo di fronte a un quadro sicuramente di grande importanza non solo per Mantegna ma per l’intera storia dell’arte del Rinascimento. Con esso ritroviamo infatti un tassello della produzione del Mantegna riferibile a un periodo in cui egli è considerato – con Bellini, Leonardo e Perugino -, il più grande artista italiano.”
Da ultimo è opportuno ricordare come quest’opera sia l’unico dipinto di Mantegna documentato nel Sud Italia, tenuto conto che il resto della sua produzione pittorica è da ascriversi al padovano, al mantovano o comunque al Nord Italia. Non è però l’unica opera dell’artista presente in assoluto sul territorio meridionale se si considera la statua in pietra di Nanto policromata raffigurante Sant’Eufemia e custodita nella Cattedrale di Irsina (Matera), attribuita nel 1996 al Mantegna – unica scultura ad oggi a lui riconducibile – dalla storica dell’arte Clara Gelao: un’opera che sarebbe giunta nel piccolo centro lucano intorno al 1454 da Padova per volontà del presbitero Roberto de Mabilia, rettore della chiesa padovana di San Daniele e autore di una consistente donazione alla cattedrale del suo paese d’origine.
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