Un elefante preistorico riemerge dai fondali di un lago della Sila Grande

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Resti dell’Elephas Antiquus ritrovato nei pressi del Lago Cecita, Parco Nazionale della Sila – Ph. Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone

Il pachiderma è un esemplare della specie Elephas Antiquus, vissuto per centinaia di migliaia di anni in un’area che andava dal Nord Europa fino alle sponde del Mediterraneo. Ritrovati anche i resti di armi metalliche, prima attestazione di presenza longobarda nella Sila Grande, e un tratto di strada romana

di Enzo Garofalo e Ferruccio Cornicello

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Archeologi al lavoro sui resti dell’Elephas Antiquus ritrovato nella Sila Grande, Lago Cecita – Ph. Parco Nazionale della Sila

In Calabria è stato ufficializzato pochi giorni fa a Camigliatello Silano (Cosenza), nel corso di una conferenza stampa, l’eccezionale ritrovamento della spoglia fossile completa di un elefante preistorico e di altre testimonianze archeologiche avvenuto sull’altopiano della Sila Grande, lungo la riva meridionale del Lago Cecita. Il bacino idrico artificiale, noto anche come Mucone dal nome del fiume che lo alimenta, è il più grande di tutto il sistema dei laghi silani ed è stato ideato e progettato dal celebre ingegnere mortarese Angelo Omodeo sulla base della Legge 11 luglio 1913 n. 985 intitolata “Provvedimenti relativi alla costruzione di serbatoi e laghi sul fiume Tirso e sui fiumi silani” per poi essere realizzato nel 1950. A presentare la scoperta c’erano Giovanna Verbicaro, archeologa della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Cosenza, Catanzaro e Crotone, il Soprintendente Mario Pagano e gli archeologi Antonella Minelli dell’Università degli Studi del Molise e Felice Larocca dell’Università degli Studi di Bari (la Minelli è attualmente impegnata in Calabria a San Lorenzo Bellizzi nello scavo di una grotta funeraria che custodisce reperti antichi di circa ottomila anni fa). Per le istituzioni sono intervenuti il presidente della Regione Calabria Mario Oliverio, il Commissario del Parco Nazionale della Sila Sonia Ferrari, e il sindaco di Spezzano della Sila Salvatore Monaco.

IL RITROVAMENTO

La scoperta è avvenuta lo scorso 17 settembre in un’area riemersa a causa della siccità che ha fatto ritirare le acque lacustri e, finalmente, gli esiti delle prime analisi sui resti sono a disposizione degli studiosi e del pubblico. Si conferma così la rilevante importanza archeologica e paleontologica di un territorio che da più di un decennio sta restituendo reperti ascrivibili ad un arco cronologico di oltre 700 mila anni che dal Paleolitico arriva all’Alto Medioevo. Il ritrovamento è avvenuto per caso durante una ricognizione volta al recupero di reperti metallici a Campo San Lorenzo, nel comune di Spezzano della Sila, in un’area dove qualche anno fa era stato ritrovato casualmente un oggetto solo successivamente identificato come uno scramasax, strumento da taglio/arma tipico dei Longobardi, popolo la cui presenza nella regione silana viene così attestata per la prima volta. Il soprintendente archeologo Mario Pagano, al quale si deve l’identificazione della natura del reperto, ritiene che esso sia da ricondursi ad un’offensiva bizantina contro i Longobardi, avvenuta nell’agosto 663 d.C. e conseguente allo sbarco dell’imperatore Costante II a Taranto: è probabile – sostiene Pagano – che mentre l’Imperatore bizantino puntava su Benevento per cingerla d’assedio, i Longobardi che risiedevano sulla Sila siano rimasti vittime di una manovra a tenaglia da sud trovandosi costretti a fuggire. La ricostruzione è corroborata dal fatto che, come ci mostrano le fonti storiografiche, la Sila Grande ricade in quella fascia di territorio in cui si colloca il limes fra il longobardo Ducato di Benevento, a nord, e il bizantino Ducato di Calabria a Sud, confine approssimativamente compreso tra la foce del fiume Savuto a ovest, sul mar Tirreno, e quella del Crati a est, sul mar Jonio.

La recente ricognizione sul luogo del ritrovamento, nella speranza di individuare altri oggetti di origine longobarda non è rimasta infruttuosa: sono infatti riemerse altre armi metalliche in corso di lavorazione e anche un crogiolo utile allo scopo, segno della presenza sull’altopiano di una vera e propria fucina. A quanto pare un unicum a livello nazionale. Nei pressi è infine riemerso anche un tratto di strada romana larga 3,70 m, probabilmente la prima mai riemersa in Sila, testimonianza di come l’altopiano fosse un importante crocevia di traffici per via della sua natura di strategico trait d’union fra i versanti dello Jonio e del Tirreno.
 

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Esemplare di scramasax, strumento da taglio/arma di origine longobarda, Lago Cecita, Parco Nazionale della Sila – Ph. Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone

Per quanto riguarda l’elefante, si tratta di un esemplare appartenuto a una specie ormai estinta, quella dell’Elephas (Palaeoloxodon) antiquus, l’elefante più grande mai esistito, che ha abitato l’Europa a partire da circa 700.000 anni fa raggiungendo nel tempo anche le propaggini più meridionali del continente, il che proietta il contesto del lago Cecita e lo stesso reperto in un’epoca particolarmente remota, al momento ipotizzata intorno ai 75 mila anni fa. Il soprintendente Mario Pagano, ha dichiarato che, secondo una prima ricostruzione, l’animale sembrerebbe morto sulle rive del lago per cause naturali non essendo stati ritrovati, almeno al momento, elementi che suggeriscano la presenza di cacciatori. A rendere eccezionale questo ritrovamento – ha spiegato l’archeologa Antonella Minelli – è il fatto che lo scheletro dell’elefante sia pressoché intero e in parziale connessione anatomica: infatti con maggiore frequenza si rinvengono porzioni di zanne e molari isolati e molto più raramente crani e scheletri completi.
 

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Molare dell’Elephas antiquus in fase di rilievo, Lago Cecita, Parco Nazionale della Sila – Ph. Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone

L’identificazione con la specie Elephas antiquus è basata sulla presenza di zanne della lunghezza di 3 metri e frammenti diafisari che lasciano dedurre un’altezza di 4 metri al garrese. Si trattava dunque di un animale imponente, gli esemplari della cui specie mediamente raggiungevano dimensioni simili a quelle dei più grandi elefanti africani, ma erano caratterizzati da zanne diritte e lunghe quasi a sfiorare il suolo, con leggera curvatura verso l’estremità. Tipico dei periodi interglaciali, caratterizzati da innalzamento della temperatura media globale e ritiro dei ghiacci, questo elefante aveva come habitat praterie o foreste di alberi decidui, sebbene non manchino ritrovamenti di suoi resti in foreste di conifere della fascia temperata. Si ritiene che nell’area mediterranea sia comparso nel secondo periodo interglaciale (cosiddetto Mindel-Riss) manifestandosi, in alcuni contesti insulari, nella forma nana del Palaeoloxodon falconeri e subendo la caccia dell’uomo.
 

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Ricostruzione di un paesaggio d’epoca interglaciale con esemplari di Elephas antiquus, Stephanorhinus kirchbergensis (specie estinta di rinoceronte) e Capreolus capreolus – Credit: Elke Gröning

L’ELEPHAS ANTIQUUS NELL’ITALIA DEL SUD

La Calabria non è nuova a ritrovamenti di resti di Elephas Antiquus come testimoniano quelli enormi esposti nella sezione preistorica del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, riemersi mezzo secolo fa sulle colline di Archi e risalenti al II periodo interglaciale. Sempre nel reggino, i paleontologi Giuseppe De Stefano e Eduardo Flores, nel 1900 riferiscono del ritrovamento in alcuni terreni postpliocenici di un frammento di molare di Elephas antiquus. Questi non furono gli unici ritrovamenti in Calabria, come risulta dal saggio Pleistocene mammal faunas of Calabria (Southern Italy): biochronology and palaeobiogeography (2009) di Antonella Cinzia Marra, paleontologa dell’Università di Messina, nel quale si ricorda come nel 1895 il paleontologo romano Gioacchino De Angelis d’Ossat abbia rinvenuto resti del pachiderma a Laino Borgo (Cosenza), mentre nel 1922 il suo collega pavese Carlo Airaghi ne scoprì altri sul versante calabrese del bacino del Mercure, al confine con la Basilicata. Sempre nell’800 altri resti sono emersi nelle grotte di Torre Talao, a Scalea (Cosenza), menzionati in varie pubblicazioni scientifiche, come del resto quelli ritrovati successivamente in C.da Iannì a Nicotera (Vibo Valentia). Altri rinvenimenti sono menzionati da Gabriella Mangano, dell’Università di Messina, nel breve saggio I depositi di vertebrati continentali del Pleistocene della Calabria (2007): da quello di Terreti, frazione del comune di Reggio Calabria, dove resti fossili sono emersi da un deposito sabbioso ubicato a circa 500 m di quota; a quello in Contrada Morrocu, località Arangea, sempre a Reggio Calabria, proveniente da livelli alluvionali soprastanti depositi sabbiosi marini del Tirreniano; e ancora in Contrada Condera-Spirito Santo, Reggio Calabria, dove resti sono emersi da un deposito di ghiaie con interposte argille lacustri (di essi, una zanna è custodita al Museo Archeologico di Reggio Calabria); infine, da un ambiente fluviale di Castrolibero (Cs)  provengono resti oggi custoditi al Museo Geologico dell’Università di Napoli. Come si può notare, ci troviamo di fronte a una quantità di resti che probabilmente fanno della Calabria la regione italiana col maggior numero di rinvenimenti relativi a questa specie animale.
 

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Ricostruzione virtuale di Elephas antiquus

Per restare nel Sud Italia, notevoli sono anche i resti di un esemplare risalente al Pleistocene medio superiore (400.000 – 700.000 anni fa), ritrovati nel 1982 in Basilicata, su un’area collinare vicina al fiume Mercure in agro di Rotonda (Potenza), ed oggi esposti nel locale Museo di Paleontologia e Storia Naturale con accanto una riproduzione dell’animale a grandezza naturale. Sempre negli anni ’80, nel sito di Notarchirico (Venosa), è riemerso un cranio di Elephas con entrambe le zanne in connessione anatomica e la mandibola, il tutto fra una trentina di strumenti litici coevi in quella che molto probabilmente era un’area di macellazione e di utilizzazione alimentare dell’animale. Sembrerebbero inoltre appartenere alla stessa specie anche i mastodontici resti ritrovati casualmente a Roccanova (Potenza) nella primavera del 2015. In Sicilia, nello stesso periodo, sono invece riemersi i resti fossili di un esemplare nano appartenente alla sottospecie Palaeoloxodon falconeri. In Molise, resti di elefante, accanto a quelli di altri animali sono attestati in località La Pineta (Isernia), straordinario giacimento di reperti del Paleolitico nonché sede di una delle comunità umane più antiche d’Europa quella del cosiddetto Uomo di Isernia (Homo Aeserniensis), databile a circa 730 mila anni fa.

ELEFANTE DEL CECITA: LO STUDIO CONTINUA

I resti rinvenuti sul Lago Cecita saranno sottoposti a pulizia, consolidamento e restauro presso il laboratorio archeologico dell’Università degli Studi del Molise, per essere poi fare ritorno in Sila dove, si spera, troveranno degna collocazione e fruibilità da parte del pubblico.

A dimostrazione della complessa stratificazione dell’area del lago silano, accanto ai resti dell’elefante sono riemerse inoltre testimonianze archeologiche che rimandano a fasi di frequentazione umana del luogo durante gli ultimi sei millenni. Le ricerche – che coinvolgono il segretario regionale Mibact per la Calabria, la Soprintendenza archeologica, Belle Arti e Paesaggio per le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone, il Comune di Spezzano della Sila, il Parco nazionale della Sila, l’Università degli studi del Molise e l’Università degli studi di Bari “Aldo Moro” – proseguiranno con la completa asportazione dello scheletro dell’elefante per gran parte ancora immerso nei sedimenti (al momento sono stati recuperati una zanna, il cranio, una mandibola, un molare e l’osso di un arto anteriore), e con ulteriori ricognizioni esplorative lungo le sponde del lago, tramite anche l’impiego di droni, al fine di individuare nuovi siti d’interesse paleontologico e archeologico. Previsto anche un programma di analisi specialistiche di tipo sedimentologico, archeobotanico e palinologico, volte ad acquisire dati utili a una precisa ricostruzione paleoambientale in senso diacronico.

UNA SUGGESTIONE
 

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L’elefante dell’Incavallicata, Campana (Cosenza) – Ph. © Ferruccio Cornicello

Concludiamo il nostro report sull’Elephas antiquus ritrovato in Sila, lanciando una suggestione che ci auguriamo possa un giorno trovare un riscontro in termini di approccio scientifico ad un luogo fra i più enigmatici e affascinanti della Calabria. Ci riferiamo ai megaliti dell’Incavallicata, “due grandi blocchi rocciosi” modellati nella roccia arenaria del Miocene superiore, ubicati nel Comune di Campana, uno dei quali, di oltre 5 m, richiama immediatamente le sembianze di un elefante. L’altro evoca invece la parte inferiore di una figura umana che, se integra, avrebbe raggiunto un’altezza di circa 18 m. Presenti da tempo immemorabile su un’altura a monte del paese della Sila Greca in provincia di Cosenza, a circa 700 metri di altitudine, non hanno ancora goduto di un approfondito studio scientifico volto ad accertarne la reale natura, se si esclude un articolo pubblicato dai geologi A. Guerricchio, M. Ponte, V. Biamonte, M. Guerricchio M. e R. Mastromattei nel 2008 sul Bollettino della Società Geografica Italiana (1) e il breve saggio “Le Pietre dell’Incavallicata” dedicato ai megaliti da Domenico Canino, architetto con la passione per l’archeologia. Nonostante la grande attenzione ad essi riservata dai media internazionali, da parte di molti si è infatti preferito liquidare finora la questione considerandoli delle mere formazioni geologiche modellate dagli agenti atmosferici. Ma i dubbi sono tanti e legittimi. È auspicabile che il ritrovamento dei resti di Elephas antiquus in Sila, in un’area peraltro non molto distante dalla sede di tali megaliti, stimoli quanto prima la ricerca ufficiale ad un approccio scientifico multidisciplinare che faccia luce sulla vera natura di questi megaliti, tenendo conto anche delle varie evidenze rupestri presenti nei dintorni, come ad es. le grotte intercomunicanti di contrada Ornarito.

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Veduta d’insieme dei c.d. Giganti dell’Incavallicata. In primo piano due grotte-ricovero probabilmente coeve, Campana (Cosenza) – Ph. © Ferruccio Cornicello

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L'elefante dell'Incavallicata, Campana (CS) – Ph. © Ferruccio Cornicello

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Scorcio delle grotte intercomunicanti di Ornarito, Campana (CS), in un'immagine degli anni '80

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Scorcio delle grotte intercomunicanti di Ornarito, Campana (CS), in un'immagine degli anni '80

NOTE:

(1) A. Guerricchio, M. Ponte, V. Biamonte, M. Guerricchio, R. Mastromattei, L’elephas ed il “condottiero” di Campana (Sila Greca – Calabria), in Bollettino della Società Geografica italiana, Vol. 13, pp. 163-168, 2008 | Abstract: “Presso l’abitato di Campana, nella Sila Grande (Calabria Settentrionale), due grandi blocchi rocciosi di altezza attorno ai 5-6 metri, sono stati scolpiti in epoca storica, difficile comunque da precisare, nella formazione arenacea del Miocene superiore. Per quanto mutilati ed erosi dagli agenti atmosferici, si riconoscono un elefante e parte di una figura antropomorfa, dalle ginocchia in giù, forse un condottiero o un dio. Quest’ultima statua, qualora fosse stata integra, avrebbe raggiunto altezze di circa 15-18m, rappresentando uno tra gli esemplari statuari di maggiore altezza nel bacino del Mediterraneo. La loro datazione, vista la presenza dell’elefante, potrebbe farsi risalire all’epoca di Pirro o di Annibale. In particolare, si può presumere che l’elefante ed il “condottiero” possano testimoniare la presenza del primo attorno al 280 a.C., quando le colonie bruzie presenti nell’area, alleate di Pirro, sfruttavano il legname della Sila. Meno attendibile, invece, appare la seconda ipotesi, poiché l’ultimo elefante di Annibale morì prima del sua arrivo in Calabria. Si rileva, inoltre, la similitudine con altre statue colossali presenti nell’area mediterranea, quali, ad esempio, quelle di Memnon ed Abu Simbel in Egitto. Pertanto, le statue di Campana possono costituire un geosito di indubbio interesse scientifico.”

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