La scoperta di una villa romana a Boscoreale nel racconto del poeta Salvatore Di Giacomo

Part. di affresco con festone di foglie, frutti e nastri dalla Villa di Publio Fannio Sinistore, Musée de Picardie, Amiens - Ph. Carole Raddato | CCBY-SA

Part. di affresco con festone di foglie, frutti e nastri dalla Villa di Publio Fannio Sinistore, a Boscoreale (Na), Musée de Picardie, Amiens – Ph. Carole Raddato | CCBY-SA

di Redazione FdS

Salvatore Di Giacomo

Salvatore Di Giacomo

Il celebre poeta, drammaturgo e saggista napoletano Salvatore Di Giacomo (1860-1934), oltre che come autore di poesie in lingua partenopea, di pièces per il teatro e di novelle dalle atmosfere cupamente drammatiche, è noto per i suoi saggi di storia locale dal suggestivo piglio narrativo. Dovendo occuparci di alcuni affreschi custoditi al Metropolitan Museum di New York e provenienti dalla villa romana di Publio Fannio Sinistore, scoperta a Boscoreale (Napoli) negli ultimi anni dell’800, abbiamo pensato di proporvi un suo ‘reportage’ intitolato Gli affreschi di Boscoreale, pubblicato nel dicembre del 1900 sulla rivista Emporium (vol. XII, n. 72, vol. XII, n. 72, pp. 435-448), nel quale racconta in modo straordinariamente evocativo la visita a Boscoreale, a casa dell’avv. Pietro De Prisco, che gli narra l’incredibile scoperta fatta dal fratello Vincenzo in un terreno di famiglia.

Gli affreschi di Boscoreale

di Salvatore Di Giacomo

Una delle ville romane di Boscoreale (Na) - Ph. Carlo Mirante | CCBY2.0

Una delle ville romane di Boscoreale (Na) – Ph. Carlo Mirante | CCBY2.0

Nel tablinum – per rimanercene nella latinità – d’una piccola casetta in costruzione, un giorno afoso dell’agosto del 1894, io seppi dall’avvocato Pietro De Prisco, a Boscoreale, la storia degli scavi intrapresi da suo fratello Vincenzo. La casetta, da un lato, guardava sulla via polverosa che da Torre Annunziata conduce al villaggio di Boscoreale: dall’altro affacciava sopra un giardino ombroso ove, al principio d’un solitario viale, un’erma biancheggiava sul verde. Era proprio una triste giornata estiva. La campagna pareva addormentata sotto un cielo fosco e pesante. E ascoltando il De Prisco e sorseggiando la eccellente tazza di caffè ch’egli m’aveva offerto, io lasciavo errare, quasi malinconicamente, il mio sguardo sul vasto paesaggio montuoso che si offriva alla mia vista. Il Vesuvio, di volta in volta, dava fuori pel suo cratere boccate d’un fumo denso e nerastro e, ad ogni boccata, un cupo brontolìo gli romoreggiava brevemente nei fianchi palpitanti. Più in là e più in sotto, presso Resina, il cielo grigiastro era segnato da una linea nera: una turba d’uccelli fuggiva verso Torre. Forse era vicina la pioggia. Nel giardino, seduti in giro per terra, i muratori della casetta facevano colazione in silenzio: del pane duro e bigio, bagnato nell’acqua d’una cisterna – nient’altro.

Voi conoscete certamente, mio caro signore, la favola posta in giro, da questi superstiziosi contadini, sulla scoperta che abbiamo fatto e sulla sontuosa villa pompeiana che i nostri scavi hanno rimesso alla luce. Si è detto che un nostro zio prete ci abbia indicato il pezzo di terra sotto il quale avremmo rinvenuto un tesoro: si è detto ch’egli, morendo, ci abbia raccomandato di scavare sotto le nostre viti e che davvero, seguendo il suo consiglio, noi ci siamo arricchiti con la suppellettile dei nostri padri antichi. Vi dirò, invece – soggiunse il De Prisco – come precisamente sono andati i fatti.”

Egli aveva, come me, sorbito il suo caffè e adesso accendeva un sigaro e me ne offriva un altro.

“Siamo – continuò l’avvocato, lanciando al soffitto una grossa boccata di fumo – quattro fratelli. Mio padre possedeva un pezzo di terra limitrofo a quello che apparteneva a un signor Pulzella, a pochi passi da questa casetta. Il Pulzella, nel continuo vangare e rivangare che faceva nella sua terra, scopre, un bel giorno, un avanzo di fabbrica remota. Continua lo scavo, penetra in una piccola stanzuccia sotterranea e s’inoltra in un secondo cubicolo. Ma qui, siccome egli era penetrato nella nostra proprietà, si dovette arrestare. E per venti anni ci tenne nascosta la sua scoperta. Intanto, morto nostro padre, nel 1888, toccò in sorte a mio fratello Vincenzo il terreno sotto il quale era penetrato il nostro vicino. Mio fratello appura del tentativo del Pulzella, sospetta di aver sotto le sue viti qualche casa pompeiana, raccoglie un po’ di denaro e coraggiosamente continua lo scavo principiato dal Pulzella” (1)

– Ebbene?

“Ebbene – continuò l’avvocato – bisogna dire che mio fratello fu largamente ricompensato del suo ardimento. Egli scoperse subito un secondo e un terzo cubicolo. Tutte e due queste camere, comunicanti fra loro e con quella che aveva esplorato il Pulzella, facevano parte del bagno del signore pompeiano. L’ultima di esse, il calidarium, aveva la sua vasca rettangolare rimpetto a una nicchia ornata e rivestita di stucco a spicchi. La precedeva il frigidarium col suo spogliatoio, e il così detto apoditerium precedeva tutte. Sa – mi fece, a questo punto, l’avvocato – a furia di scavi, e di studii ne’ soliti manuali archeologici, ho imparato anch’io un poco di terminologia analoga…”

– Dunque – dissi io – apoditerium, frigidarium e calidarium. Un bagno completo?

“Precisamente. Aspetti. Si scava ancora, si va avanti ed ecco il serbatoio dell’acqua, ed ecco venir fuori la caldaia che presenta un sistema riscaldatore affatto nuovo. Ed ecco vasi, anfore, utensili da cucina, utensili campestri; vetri, anelli, monete…”

– E infine quel tesoro d’argenti lavorati al quale vostro fratello ha fatto pigliare tranquillamente la via di Francia.

L’avvocato scosse il capo, sorridendo.

“È vero. Ma sono seguite, in Italia, tali circostanze, riguardo al fatto degli argenti, che mio fratello non ha potuto far a meno di avviarli per la via d’oltr’Alpi. D’altra parte – e si levò e prese il cappello che aveva lasciato su una sedia – ciò la interessa fino a un certo punto, io credo. Lei avrà certo maggior curiosità per gli scavi, non è vero? E non vuoI venire sul posto?”

– Ma certamente.

“Gli scavi son qui, a quattro passi. La giornata non è bella, ma l’assenza del sole o, per dir meglio, questo velario di nuvole da cui il sole è coperto favorisce la nostra visita. Non ci abbruceremo, non dubiti.”

Scendemmo dalla casetta. Qualcuno de’ muratori s’era messo a dormire, facendo cuscino alla testa della sua giacchetta rattoppata: qualche altro fumava tranquillamente la sua pipetta, un altro cantava, a distese malinconiche, una lamentosa canzone campagnuola in cui la sua amante era paragonata a una fontana disseccata e ad una pietra del Vesuvio il cuor non pietoso di lei. Il cagnuolo dell’avvocato, che ci aspettava nel cortile, ci precedette, scodinzolando allegramente, fino allo scavo e si mise, a un tratto, ad abbaiare davanti a una porta.

“È qui”– disse l’avvocato.

Colori autunnali in una delle ville di Boscoreale (Na) - Ph. Carlo Mirante | CCBY2.0

Colori autunnali in una delle ville di Boscoreale (Na) – Ph. Carlo Mirante | CCBY2.0

La porta s’aperse di dentro e io seguii la mia guida in una specie di fossato quadrato ov’ erano ancora in piedi le mura e si vedevano stanze delle quali alcune avevano un leggiadro pavimento a mosaico. Riconobbi la parte rustica della villa, con la sua cucina che aveva nel centro il suo focolare di mattoni e nella parte nord-est l’impronta d’una grande scansia di legno. Ecco il larario, ecco la cella vinaria, ecco la stanza rurale ove Vitruvio raccomandava che si tenessero le vanghe, le forcine, le falci, le zappe, istromenti che furon qui tutti rinvenuti sul posto e che ora fanno parte del bel piccolo Museo De Prisco a Pompei. Un vasto locale, pur a pianterreno, era serbato per i dolia, grandi vasi propaginati, ne’ quali il ricco proprietario poneva il vino, il grano, la carne salata, perfino il miglio che occorreva a’ suoi uccelli. Ecco la cameretta del portinaio, che rimase asfissiato mentre fuggiva e cadde colla mano sulla bocca: l’impronta di gesso del suo cadavere è lì, nello stesso Museo De Prisco, come su d’un tavolo anatomico…

Vidi ancor la caldaia sulla quale, interessato da questo insospettato documento della vita antica e de’ sistemi riscaldatori, il Mau pubblicò uno studio completo: vidi il bagno, col suo bel pavimento a mosaico, diverso in ogni stanzetta del bagno stesso. In una camera vicina il De Prisco aveva raccolto quanto, a mano a mano, era venuto fuori da quelli scavi fortunati: una svariata collezione di lampade, le tegole e le grondaie del tetto, i dadi, o tesserae, con cui giocavan gli schiavi, le anfore pel vino, alcune delle quali, dette litteratae, avevano sulla pancia, inciso, il nome del vino o quello del suo fabbricante. Su di una leggo:

G. F. SCOMBR
SCAVRI
EX OFFICINA SCAVRI

e su di un’altra:

GEMINIAN -T. T. H.

In una scodella sono monete d’oro, d’argento, di bronzo, pietre preziose, anelli, monili, amuleti: in un coccio di vetro è del vino quasi pietrificato, ma che, soffregato, odora ancor forte. E lì, su un’altra tavola, accanto alla forma del villicus o portinaio, è il gesso del mezzo busto d’un cadavere femminile, il cadavere d’una vecchia, la quale ha sulla bocca un panno che le si rannoda dietro, sopra la nuca…

**

Sei anni passarono da quella giornata d’agosto che lasciava in me, con la vista della villa risorta a luce, con l’interessamento e la curiosità che avevano suscitato nel mio spirito gli oggetti così svariati e così espressivi del piccolo Museo De Prisco, un ricordo davvero incancellabile. Per sei anni non si parlò più, né a Napoli né fuori di Napoli, del tesoro di Boscoreale. Il silenzio era stato interrotto soltanto quando i giornali francesi avevano annunziato la compera che aveva fatto il Rothschild dell’argenteria preziosa rinvenuta nel pozzo della villa pompeiana e il dono che, dallo stesso Rothschild, era venuto al Louvre di quella splendida, forse unica collezione di coppe, di vasi, d’anfore e piatti lavorati a sbalzo da’ più aristocratici e squisiti artefici greci. Poi tutto tacque e il nostro Governo si consolò della perdita con l’acquisto d’un interessante mosaico scavato a Torre Annunziata e rappresentante Platone in mezzo a’ suoi discepoli (2).

Da qualche mese a questa parte i De Prisco e Boscoreale tornano a raccogliere l’attenzione dello Stato italiano, degli archeologi e… dei giornali illustrati. Una nuova casa, assai più vasta della prima che fu scoperta nel 1894, è venuta a luce a un tiro di fucile da quella, e Vincenzo De Prisco, che aveva comprati, a poco a poco, altri terreni intorno al campicello che gli era stato così generoso, si è visto adesso favorito da una fortuna che forse egli non aveva sperato. Nella nuova casa – che nel tempo della catastrofe pompeiana è stato detto che fosse in rifazione – il De Prisco non trova argenti, non utensili della vita e degli usi domestici o campagnuoli, non monete, non impronta di cadaveri d’uomini o di bestie. Ma quello che i padroni di casa non avevano potuto portar via e che, pel momento, è un documento parlante della loro signorilità e del loro bel gusto, il felice scavatore ha ben ritrovato al suo posto. Le antiche pareti rimaste in piedi hanno svelato alla meraviglia e all’ammirazione nostre i più interessanti affreschi i quali, fin ad oggi, si siano rinvenuti in queste esplorazioni pazienti del vasto territorio pompeiano (3). Siamo, evidentemente, al cospetto d’un pagus abbastanza folto di ville e di villette, d’un di quelli aggregati di case campagnole che la scienza archeologica non ha ben definito quanto alla loro importanza e al loro numero, ma che certamente con gli scavi di Boscoreale offriranno agli studiosi della materia un importante contributo. E in una parte di questo pagus, soggiorno d’amena villeggiatura per i ricchi della vicina Pompei, ecco esemplari, non più supposti, d’uno stile architettonico la cui fisonomia rivelatrice scombussola, io credo, un tantino la teoria archeologica de’ così detti quattro stili vitruviani.

Part. di affresco dal cubiculum della Villa di Publio F. Sinistore, Boscoreale, Metropolitan Museum - Ph. Ad Meskens | Public domain

Part. di affresco dal cubiculum della Villa di Publio F. Sinistore, Boscoreale, Metropolitan Museum – Ph. Ad Meskens | Public domain

Non esigo che tutti i lettori dell’Emporium conoscano Vitruvio. Voglio dir soltanto che il suo libro, così spesso exploité per l’erudizione sull’antica architettura, offre al paragrafo V del suo settimo capitolo un prospetto critico delle maniere di dipingere seguite da’ decoratori delle case romane. Qui egli dice: “…ex eo antiqui qui initia expoliationibus instituerunt, imitati sunt primum crustarum marmorearum varietates et collocationes: deinde coronarum et silaceorum, miniaceorumque cuneo rum inter se varias distributiones: postea ingressi sunt, ut etiam aedificiorum figuras, columnarumque et fastigiorum eminentes projecturas imitarentur: patentibus autem locis, uti exedris, propter amplitudinem parietum, scena rum frontes tragico more, aut comico, seu satyrico designarent: ambulationis vero propter spatia longitudinis, varietatibus topiorum ornareni ab certis locorum proprietatibus imagines exprimentes: pinguntur enim portus, promontoria, littora, flumina, fontes, euripi, lana, luci, montes, pecora, pastores: nonnullis locis item signorum megalographiam, habentem Deorum simulacra, seu fabularum dispositas explicationes, non minus Trojanas pugnas, seu Ulyssis errationes per topia, caeteraque, quae sunt eorum similibus rationibus ab rerum natura procreata.”

Prima maniera de’ decoratori antici fu, dunque, come si legge nello scrittore romano, che ne parlava tra l’11 e il 20 avanti Cristo, d’imitare le varie combinazioni che si fanno con incrostazioni di marmo. Seguirono distribuzioni di cornici con riquadrature di giallo e di rosso; vennero in seguito rappresentanze di edificii coi rilievi delle colonne e de’ frontespizii. E quindi ne’ luoghi aperti e nelle esedre disegnarono scene tragiche o comiche, tracciarono paesaggi nei corridoi e, in alcuni luoghi, anche quadri con figure, rappresentanti o immagini di Dei, o favole, o fatti di guerre di Troia, o viaggi di Ulisse.

Ma – soggiunge Vitruvio – queste pitture, che gli antichi copiavano da cose vere e possibili, sono adesso, per depravato costume, disusate in tutto. Gl’intonachi offrono allo sguardo confuso non creature ma mostri. Scambio di colonne son canne sulle pareti: invece di frontespizii son pur lì arabeschi ornati da foglie ricce, o da viticci o da candelabri che reggono figure: sui teneri gambi di fiori ipotetici stanno altre figure sedute! Non vi sarebbe, dunque, in tanta miseria di verità, da augurarsi – esclama il disgustato scrittore – un secondo Licinio matematico, il quale ad Apaturio Alabanteo, che presso i Tralliesi dipinse una scena nel piccolo teatro – rimbeccò tutti gli errori di statica, di prospettiva, di verità, ne’ quali era caduto col suo insopportabile manierismo?

***

L’esposizione de’ tradizionali quattro stili è, dunque, ne’ primi passi – che ho quassù riprodotti – riassunta nell’opera vitruviana: ne’ seguenti se ne soggiunge la critica. Deve, però, sembrare al lettore che davvero quasi tutta la decorazione murale pompeiana sia originata da un convenzionale ibridismo e che proprio debba tornar vano a un ricercatore della vita de’ romani il tentativo di ricostruirne la manifestazione edilizia attraverso le rappresentazioni decorative delle loro pareti familiari. E forse è così. Ottant’anni dopo la morte di Vitruvio, Pompei non aveva migliorato: la storia delle decorazioni pompeiane diventa, da quel tempo fino alla catastrofe del 79, ancor più confusa, e agli archeologi e agli studiosi delle vicende dell’arte riesce sempre più difficile la conoscenza precisa dell’aspetto esterno della casa romana.

Avrebbero mai gli affreschi di Boscoreale risoluto, almeno in parte, questo problema? Certo gli esemplari più importanti della nuova raccolta del De Prisco sono, a parer mio, quelli che presentano una forma di caseggiato fin qua non apparsa mai nelle precedenti pitture murali rinvenute a Pompei (4). Nella penombra di un vasto locale ove il De Prisco conserva adesso, staccati da’ muri, que’ magnifici quadri, io son rimasto lungamente a contemplarli, mentre la memoria degli occhi miei s’andava, a mano a mano, risovvenendo di analoghe rappresentanze, intravedute, or qua or là, nelle riproduzioni di scenarii architettonici dipinti in anni più assai vicini a noi (5).

I legami evidenti della nostra all’ arte antica mi si sono in quel punto riaffermati meglio che mai nella mente: legami originati da nazionalità comune, dall’identica influenza geografica degli orizzonti, da quella tradizione, infine, che li ha sempre più vincolati sotto il classico cielo italico. Così, in qualcuna di codeste romane architetture mi è parso di ritrovare il motivo germinatore di quegli sfondi quattrocenteschi su’ quali or si agitano le figure suggestionanti della Torre di Babele di Benozzo Gozzoli, or pigliano rilievo quelle, bizzarre e tenere, del Botticelli, ora s’atteggiano, tra una folla di cavalli e di armati, le guerresche figure del Carpaccio. Ecco gli stessi pensili balconcelli sporgenti, ecco le travi quadrate e rosse che ne reggono il peso e vengon fuori simmetricamente dal muro, ecco torricelle quadrangolari sormontate da piccoli tetti a scaglioni e, più in su, colonnati che non sono fantastici e che quasi terminano più severamente e più sontuosamente la fabbrica assorgente. Nella parte bassa ella ha una porta dal cui disegno armonioso non si scostano quelli della nostra Rinascenza: le riquadrature, gli ornati, la elegante cimasa sull’architrave, lo stile de’ battenti degli usci, che alla mano del visitatore offrono un mascherone il quale addenta un largo anello, le colonnine laterali a capitello jonico, tutto questo è stato evidentemente imitato nel nostro bel Cinquecento: due secoli hanno più da vicino profittato degli elementi svariati che forniva loro l’arte antica. Tuttavia, prima ancora di quello di Sandro Botticelli e dell’altro di Leon decimo, i comuni italiani, nel mezzogiorno e nel centro della nostra penisola, erano stati rivendicati a libertà e tutta una cultura, letteraria, artistica, architettonica, s’era già formata con un ritorno all’antico. Ma io devo lasciar da parte queste considerazioni che forse escono dal mio compito di semplice cronista.

Ebbene, sono fantastici o son reali gli affreschi architettonici rinvenuti dal De Prisco? Tutto fa supporre che riproducano cose vere, esistenti. Essi di fatti non appartengono ad alcuno di quelli additati dal Vitruvio come assolutamente arbitrarii: un sentimento ragionevole ha guidato la mano del pittore e l’ha fatta obbedire alle leggi comuni della prospettiva e della statica. E non potrebbe esser, dunque, raffigurata negli interessanti dipinti una qualche casa di Pompei stessa o di Roma, oppur la casa che il proprietario d’una villa così vasta possedeva nella vicina Pompei e che s’è piaciuto di rivedere in effigie sulle pareti di questo suo Tuscolo aristocratico? Fin qua, è vero, noi non abbiamo nella dissepolta Pompei vestigia rivelatrici d’un metodo somigliante di fabbrica aggregata ed erta. Ma chi, visitando Pompei e scendendo dal Foro verso le Terme private, si mette dietro la Basilica, vede una parte della città costruita a scaglioni sul posto delle demolite mura di cinta. Così si fece, quando, sotto la dominazione romana, la ridente colonia venerea vide assicurata la sua pace e si potette tranquillamente donner des loisirs. Così a un punto del vasto anfiteatro di Napoli noi vediamo, affacciantisi nelle acque azzurrine del golfo, le ville di Mergellina e di Posillipo, incantevoli presepii popolati di torri, di colonnati biancheggianti e di terrazze.

La catastrofe vesuviana avrebbe dunque colpito Pompei mentre un novo soffio d’arte più razionale, più obbiettivo l’andava lentamente percorrendo? E l’ultima parola intorno a una circostanza di quest’arte resipiscente la direbbe dunque non precisamente Pompei, ma questo piccolo pagus che le si addossava e dove ci sembra quasi di ritrovar tanti solitarii mecenati? Anche la parte figurativa di questi affreschi mi pare che sveli, qua e là, nuove intenzioni e un metodo che non segue precisamente la scolastica tradizionale di somiglianti rappresentanze. Guardate la suonatrice di cetra: ella, fra tante filarmoniche ritrovate in effigie a Pompei, ha una fisonomia più viva, più espressiva, più reale. Chi ha posato per questo quadro simpatico e vivace? Si direbbe quasi che sia stata la padrona di casa. E quella piccina che le sta accanto ed ora affisa i grandi occhi neri maliziosi nello spettatore come dovette, nel momento in cui fu ritratta, affisarli nel pittore che le aveva forse detto di rimanersene lì per conferire maggior verità al dipinto, quella piccina non è forse una qualche servetta? … (6).

Quante supposizioni, e come è veramente difficile ricostruire su questi documenti ancora ambigui un passato tanto remoto!

Or, concludendo, qualche notizia topografica. La casa scavata ultimamente dal De Prisco è disposta su due livelli. Vi si accede dal più basso. Il vano di accesso non è ancora stato scoperto, ma esso era certamente posto nella parte bassa, la quale, più che ad atrio, è configurata a peristilio. Una stalla assai vasta e un lararium si son trovati a levante di questa parte della villa; ad occidente era la cella vinaria. Nella parte alta è un peristilio esastilo in tutti i quattro lati e sul lato destro del peristilio sono le camere da letto, il bagno e la latrina: di rimpetto stanno due triclinii, uno estivo, l’altro invernale. La figurina di genietto riprodotta in questo articolo era sulla parete di entrata al triclinio invernale (7). Gli affreschi – più di cento – si son trovati sparsi qua e là sulle pareti del portico del secondo peristilio.

Il Ministero della Pubblica Istruzione ha incaricato un’apposita Commissione per gli studii sulla nuova casa e sulle sue pitture. Aspettiamo con viva impazienza questo giudizio. La pubblicazione officiale sarà, a quanto si dice, sontuosa (8).

NOTE:
1) Il cav. Luigi Modestino Pulzella nel novembre 1876 nello scavare il fondamento per il muro di cinta ad un suo fondo sito in via Settetermini, si imbattè in un muro romano ed in parecchie anfore. Riferito all’Ufficio degli scavi di Pompei, ebbe il permesso di continuare la eplorazione che diede magri risultatipoichè la villa scoperta si inoltrava nel limitrofo fondo dell’avv. Angelo Andrea De Prisco. Gli scavi continuarono fino al 31 dicembre 1877 e furono poi chiusi anche perché il Sig. De Prisco non volle permettere l’esplorazione nelle sue proprietà.
2) Si tratta del mosaico rinvenuto il 14 luglio 1897 nel fondo della Signora Giuditta Masucci-d’Aquino sito in contrada Civita del comune di Torre Annunziata. In tale fondo fu scavata una villa rustica dal 31 maggio 1897 al 12 novembre 1898.
3) La villa in questione è la cosiddetta “Villa di P. Fannio Sinistore” o “Villa degli affreschi di Boscoreale” o “Villa di L. Herennio Floro”, scavata nel 1900 dall’On. Vincenzo De Prisco nel fondo di Francesco Vona in via Grotta a Boscoreale.
4) Di Giacomo si riferisce agli affreschi del cubicolo o stanza da letto dell’appartamento nobile. Tali affreschi sono oggi conservati al Metropolitan Museum di New York. Essi furono venduti al museo statunitense dagli antiquari Canessa di Napoli nell’agosto 1903.
5) Il vasto locale citato era sito presso l’abitazione del fratello dell’on. Vincenzo, avv. Pietro, che come abbiamo visto precedentemente corrisponde all’attuale palazzo Monteleone in via Settetermini.
6) L’affresco della cosiddetta “citareda” è anch’esso al Metropolitan Museum di New York e proviene dal grande “triclinio” o “sala di Afrodite” con il fregio a figure megalografiche.
7) Il genio alato citato fu acquistato nel 1903 dal Louvre di Parigi e proviene dal lato sinistro dell’accesso al grande triclinio, mentre un altro, posto sul lato destro dell’ingresso alla sala, è oggi conservato all’Allard Pierson Museum di Amsterdam.
8) La commissione citata dall’A. era stata eletta nell’agosto 1900 dal Ministro della Pubblica Istruzione on. Niccolò Gallo e doveva riferire al ministro circa l’importanza o meno dei dipinti e se quindi essi dovessero essere conservati allo Stato impedendosene l’esportazione all’estero. La commissione, riunitasi più volte, stabilì all’unanimità la grande importanza degli affreschi ed espresse il parere che tutti dovessero essere acquistati dallo Stato, perché di enorme interesse artistico. Ma le raccomandazioni caddero nel vuoto. Nel 1903 infatti gli affreschi della villa furono messi all’asta e il Governo Italiano acquistò solo pochi pezzi, determinando così la dispersione del gruppo di opere.

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