La dolcezza e la lentezza nello sguardo: la fotografia di Gianni Leone

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Gianni Leone, Polignano a Mare

Gianni Leone, Polignano a Mare

di Angela Capurso

Chi visita la mostra di Gianni Leone ha l’impressione di trovarsi di fronte a immagini naturali. Lo sguardo si posa quieto dinanzi alla sorpresa dell’autentico, straordinariamente essenziale. La sensazione di pacata naturalezza proviene, a mio avviso, dall’attuale indifesa fruizione delle immagini, a dir poco vorace e sconsiderata. Guardare non sempre implica il vedere, più che mai negli sconfinati territori della fotografia del terzo millennio, condizionata dalle acrobazie tecniche e dalla massiva stimolazione visiva offerta dai sistemi di comunicazione digitale. Un senso di sazietà che vorrebbe auspicare se non un digiuno, almeno una pausa.

I paesaggi urbani di Bari, Polignano, Alberobello, Martina Franca, per citare solo alcune delle località ritratte, trovano una felice collocazione nel sobrio allestimento dell’esposizione e nel formato di stampa delle fotografie. Lungo le pareti delle sale della Fondazione Museo Pino Pascali un’efficace sequenza sollecita l’attenzione sulla ricerca concettuale dell’autore, che si è espressa in bianco e nero fino al 1994, momento in cui ha adottato il colore. Il linguaggio rivoluzionario di una generazione di fotografi italiani degli anni Settanta-Novanta ha inciso così tanto sulla percezione degli spazi e sulla lettura degli elementi antropici nello spazio da risultare oggi poco individuabile. I fotografi e i fotoamatori del terzo millennio percorrono le stesse orme di chi li ha preceduti, riproponendo, anche inconsapevolmente, inquadrature, soggetti e temi sperimentati in quegli anni. Ma la diffusione delle immagini in rete provoca una sensazione di deja-vu indiscernibile.

Un progetto come il Viaggio in Italia (1984), promosso da Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Vittore Fossati, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Gianni Leone e Fulvio Ventura, ha avuto la funzione di riformulare visivamente e concettualmente la nozione di paesaggio italiano, come spazio collettivo da conoscere e tutelare, indipendentemente dal suo valore estetico. L’aporia concettuale del “paesaggio” porta a fuggire da una definizione univoca: è sintesi in continua evoluzione del rapporto tra uomo e ambiente, città e territorio, luogo di incontro tra identità individuale e collettiva, resa ancor più riconoscibile nella sua specificità da parte di chi proviene dall’esterno. Al di là di ogni valutazione estetica ed etica, la bellezza e il patrimonio artistico rivestono la stessa dignità del contesto ambientale e della memoria storica di un territorio.

L’“inventario” delle cento foto di Gianni Leone, prevalentemente scattate nei luoghi che riflettono l’identità personale dell’autore e il suo impegno come animatore dello Spazio Immagine di Bari, apre un orizzonte di paesaggi estranei allo scopo della promozione turistica. Si valorizza il territorio senza indulgere nell’accattivante e fascinoso repertorio dei mirabilia di Puglia, a buon diritto caro alle aziende e ai siti web di promozione turistica, come pure alla stampa specializzata nel settore. Il viaggio c’è, eccome, ma è un viaggio poco rutilante, che sa di certo rendere con esattezza tanto il senso dell’esperienza concreta quanto una sospesa e surreale atemporalità. La presenza umana, come ha detto Luigi Ghirri, amico e interlocutore costante di Gianni Leone, non è sempre necessaria, specie se diventa comparsa oleografica in un racconto. L’artigiano che compie il suo lavoro, le manifestazioni della devozione, per citare solo alcuni dei temi neorealistici tanto cari alla fotografia etnoantropologica della generazione ancora precedente, possono far percepire con più forza evocativa la loro presenza proprio attraverso l’assenza. Una poetica delle cose, eloquenti nel loro silenzio.

Credo che le definizioni di “fotografia dei margini”, del “rimosso”, del “non estetico” siano piuttosto riduttive, tanto per il lavoro di Leone quanto per i fotografi della sua generazione. Preferirei richiamare il concetto leopardiano di vaghezza, che compare con il suo prisma polisemico nell’attributo Vaghi paesaggi, titolo efficacissimo della mostra e del catalogo del 2014, che raccoglie un ulteriore fondo di un migliaio di fotografie degli anni Novanta, donato al Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma.

Non nego che personalmente abbia provato un effetto transfert dinanzi alle fotografie degli anni 2000 e 2009, edite nel catalogo “Poi”, un racconto meta-fotografico sul compito di ri-trarre della fotografia. Partendo dall’assunto che “anche le fotografie muoiono, come le persone che vi sono ritratte”, la sovrapposizione delle immagini restituisce materialmente l’atto ripetuto del guardare. In ogni nuovo sguardo, soprattutto a distanza di tempo, persone, oggetti e ambienti non si rivedono più allo stesso modo.

Alcune foto, che pure possono apparire inquietanti, ad esempio la foto con una mano che fuoriesce da una finestra occupandone tutta la superficie, appaiono come momenti della sovrapposizione della memoria selettiva. Questi e altri spunti sono chiariti in un film documentario, realizzato e prodotto da ArTVision, a cura di Nicolai Ciannamea, corredato da interviste all’autore e ad alcuni storici dell’arte.

Alla presenza dell’autore, Arturo Carlo Quintavalle ha concluso con l’intervento critico più atteso, in una sala gremita e attenta, sottolineando la leggerezza del linguaggio che accomuna Gianni Leone a Luigi Ghirri. La loro scelta di tenersi lontano dal “pesante” fotografico enfatico e troppo eloquente fa di loro dei maestri di stile. Un’ulteriore chiave di lettura è l’indagine metafisica: un dialogo c’è – ed è percepibilissimo – tra paesaggio naturale, inquadratura fotografica ed essenzialità ideale, come in Sironi. È questo il segreto di un’intensità precisa e icastica.

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FONDAZIONE MUSEO PINO PASCALI
Polignano a Mare (Bari)
20 febbraio – 3 aprile 2016
GIANNI LEONE. Inventario: 1979 – 2015
Dagli anni ’70 al 2015, attraverso “Viaggio in Italia”.  A cura di Rosalba Branà e Antonio Frugis. Presentazione di Arturo Carlo Quintavalle

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