L’INTERVISTA | Riemergono in Giappone i resti della flotta di Kublai Khan. Il determinante contributo dell’archeologo napoletano Daniele Petrella

Momento di scavo delle paratie esterne

Giappone – Momento di scavo delle paratie esterne di una delle navi della flotta di Kublai Khan – Ph. Pref. Nagasaki

di Enzo Garofalo

Era stata una spedizione fallimentare quella che nel XIII sec. Kublai Khan aveva inviato alla conquista del Giappone, oggetto per ben due volte delle mire espansionistiche cinesi. Oggi però si torna a parlare del condottiero e imperatore di origine mongola – noto agli italiani soprattutto per il suo legame con la figura di Marco Polo, mercante veneziano autore del celebre “Milione”, ospite alla sua corte per 17 anni – grazie ad una straordinaria scoperta archeologica che vede quale figura chiave, accanto a studiosi giapponesi e siciliani, il giovane archeologo napoletano Daniele Petrella.

I media di tutto il mondo hanno infatti ripreso la notizia del recente ritrovamento nelle acque dell’isola di Takashima, regione del Kyushu, nel sud del Giappone, dei resti della flotta riconducibile a Kublai Khan, di cui fino a non molto tempo fa si ignorava l’esatta localizzazione. Abbiamo raggiunto Daniele Petrella per farci raccontare le vicende che hanno preceduto ed accompagnato l’esaltante scoperta. Trentacinque anni, laureato in Archeologia Estremo Orientale con specializzazione sul Giappone e Ph.D. in Archeologia (Rapporti tra Oriente ed Occidente) presso l’Università di Napoli “L’Orientale”, Petrella si è perfezionato in Archeologia Subacquea presso l’International Academy of Underwater Sciences and Techniques ed ha iniziato a partecipare a numerosi scavi in Italia e all’estero; nel 2012, ha fondato l’IRIAE (International Research Institute for Archaeology and Ethnology), istituto che oggi presiede. Come leggerete nell’intervista, in merito alla spedizione giapponese, la sua è stata un’ennesima storia di ordinaria sfiducia da parte delle istituzioni italiane nelle capacità dei nostri giovani “cervelli”, conclusasi con un lieto fine grazie a quelle illuminate eccezioni che per fortuna ogni tanto prevalgono, ma soprattutto grazie all’indomita caparbietà dello stesso studioso.

Dott. Petrella, lei è stato uno dei principali protagonisti, insieme a suoi colleghi siciliani e giapponesi, della campagna di archeologia subacquea che ha portato alla recente scoperta della flotta del celebre condottiero e imperatore mongolo Kublai Khan, naufragata a causa di un terribile tifone durante un tentativo di invasione del Giappone. E’ noto che le spedizioni fallite furono addirittura due, nel 1274 e nel 1281. Ci dice a quale dei due tentativi di conquista si riferisce il ritrovamento e come è nata questa partnership italo-giapponese?

Il ritrovamento effettuato nei mari di Takashima è relativo alla seconda spedizione di Kubilai, ovvero quella del 1281. Per quanto riguarda la prima non si ha alcuna evidenza archeologica a sostegno delle fonti scritte cinesi, risalenti a circa 50 anni dopo l’evento, che vogliono anche la prima missione del 1274 fallita a causa dello stesso tifone. Noi riteniamo che la prima spedizione fallì a causa della forte resistenza dei giapponesi che chiusero la flotta mongolo-sino-coreana in una morsa che impedì all’equipaggio di rifornirsi di cibo ed armi, costringendolo alla ritirata. Questo perché, la mancanza di prove archeologiche conferma l’improbabilità che per ben due volte gli esperti marinai cinesi e coreani fossero incappati in un tifone che conoscevano fin troppo bene. Probabilmente, il “riutilizzo” del tifone come causa della disfatta fu un alibi per giustificare la sconfitta della temuta dinastia mongola. Quanto alla partership italo-giapponese, essa è nata dalla collaborazione tra me ed il prof. Hayashida iniziata nel 2005, quando, a mie spese, mi pagai la partecipazione alle indagini. La nostra relazione professionale fu così proficua che, nel 2009, decidemmo di farla diventare una spedizione ufficiale italo-giapponese. E da allora il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana ufficializzò la spedizione col patrocinio ed un piccolo supporto economico. La nostra spedizione vanta così il primato di essere la prima ed unica missione archeologica italiana e di un paese occidentale in Giappone.

Ci spiega in cosa è consistito il suo contributo personale in merito a ricerche che già il prof. Kenzo Hayashida stava conducendo su questa vicenda storica?

Le ricerche della flotta sono addirittura precedenti ad Hayashida. Risalgono più o meno alla fine degli anni ’60 ed erano dirette dal Prof. Mozai Torao, considerato uno dei padri dell’archeologia giapponese. Verso la metà degli ’80, le ricerche furono ereditate da Hayashida che aveva trovato solo alcuni elementi lignei certamente relativi alle navi in questione. Premesso che l’archeologia subacquea in Giappone è ad un livello ancora embrionale, noi abbiamo portato il know how necessario per attivare metodologie di ricerca più efficaci che hanno dato i risultati tanto attesi.

Ci risulta che lei, per poter verificare le sue intuizioni e quindi condurre le relative ricerche finalizzate a comprovarle, si era rivolto all’Università dove ha studiato, l’Orientale di Napoli, e che questa le ha praticamente risposto picche. Ci vuole spiegare come sono andati i fatti e perchè e con quale ruolo ad un certo punto è comparsa in scena l’Università di Bologna?

Beh, qui tocchiamo un tasto dolente perché non riesco a nascondere un pizzico di delusione, essendo l’Orientale l’Università in cui mi sono laureato ed addottorato. Stiamo parlando dell’Università che vanta la più antica tradizione negli studi di orientalistica. Poiché anche le grandi Università sono composte da uomini, sia ben chiaro quindi che la narrazione di quanto accaduto non si trasforma in una critica all’Orientale in quanto tale, ma ad alcuni docenti, di cui non faccio il nome.

Nel 2009, il Ministero degli Affari Esteri prevedeva ancora che le richieste per l’ufficializzazione delle spedizioni archeologiche fossero effettuate da Enti Statali, tra cui ovviamente le Università. Ne venne di conseguenza che io avessi chiesto al docente di competenza di fare per me la richiesta, considerando che l’Orientale aveva ed ha attiva una cattedra di archeologia e storia dell’arte del Giappone. L’Università avrebbe vantato il primato di aver realizzato la prima spedizione occidentale in Giappone ed io avrei realizzato il mio sogno e progetto. Bene, all’epoca, la risposta che ricevetti fu un rifiuto. Questo perché il mio interlocutore riteneva che io non avessi un “nome” tale da potermi affidare una spedizione così importante. Quindi la soluzione sarebbe stata affidare la direzione ad un docente dell’Orientale ed io avrei semplicemente preso parte alla spedizione. Comprenderà che dopo tanti studi, fatiche e ricerche, dopo anni di lavori in Italia per pagarmi la spedizione in Giappone non volli sentire ragioni di consegnare il mio progetto a qualcun altro ed io diventare un semplice collaboratore.

Così, su suggerimento di Sebastiano Tusa, della Soprintendenza del Mare, dal primo anno membro fondamentale della spedizione, mi rivolsi al Prof. Aquaro dell’Università di Bologna “Alma Mater Studiorum” che mi firmò la richiesta senza chiedere assolutamente “nulla in cambio”. Da allora, sono il Direttore della Spedizione Archeologica Italiana in Giappone. Dall’anno successivo, il dictat del MAE fu alleggerito e si estese la possibilità di effettuare la richiesta annua anche a privati. Ciò mi permise di superare definitivamente l’ostacolo. Ed oggi la spedizione è dell’International Research Institute for Archaeology and Ethnology, per parte italiana, con il preziosissimo contributo della Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana (massimo ente italiano per l’archeologia subacquea) e del Prof. Sebastiano Tusa, con il supporto del MAE e, per parte giapponese, della Prefettura di Nagasaki e del Comune di Matsuura.

Torniamo all’oggetto della scoperta. Si è parlato di quarantamila uomini per circa 1000 imbarcazioni…Cosa non ha funzionato in questo tentativo di conquista del Giappone? La responsabilità del fallimento è da attribuire, a suo avviso, solo delle avverse condizioni climatiche?

Ci tengo a precisare che la notizia data dalle fonti antiche è che le navi fossero 4400 per circa 140000 uomini tra mongoli, cinesi e coreani. Noi crediamo che questi numeri fossero un’esagerazione tipica delle cronache scritte; nella specifico, pensiamo che ne potessero essere un migliaio ma certamente non 4400. Ad ogni modo, credo sarà difficile dare un numero preciso. Noi riteniamo che di certo il tifone abbia giocato un ruolo fondamentale, ma la domanda è un’altra: perché dei marinai esperti come i cinesi che praticamente guidavano le imbarcazioni, incapparono in un tifone che loro conoscevano più che bene e che soffiava e soffia ancora oggi ogni anno in quei mari?

Prima di tutto, la guida affidata a tre ammiragli di etnie (e quindi di interessi) diverse non creò quell’amalgama necessaria a formare un esercito. I litigi e i disaccordi erano all’ordine del giorno sulle navi. Secondo punto: all’epoca della spedizione del 1281, il prestigio di Kubilai e le finanze dell’Impero erano già fortemente in calo a causa delle numerose guerre interne che il Khan dovette affrontare per unificare definitivamente il suo Impero e quindi debellare le ultime falangi della precedente dinastia al trono, i Song.

Una volta sconfitti questi ultimi ed unificato definitivamente la Cina sotto il suo dominio, potette dedicarsi all’invasione del Giappone. Chiaramente non possedeva più la potenza economica per costruire navi adeguate a tale scopo, così adoperò le imbarcazioni sottratte alla precedente dinastia da poco sottomessa, i Song appunto. Si trattava di vecchie giunche fluviali, che furono restaurate alla buona, che presentavano una piccolissima chiglia per la navigazione in estuario, o al massimo per cabotaggio [navigazione non lontana dalle coste – NdR]. Queste navi non erano pensate per la navigazione in mare aperto, eppure la traversata della flotta non seguì le tradizionali rotte di cabotaggio che i cinesi da secoli adoperavano per giungere in Giappone, ma affrontarono circa 1400 km di mare aperto, da Quangzhou (Cina meridionale) alle coste del Kyushu.

Nonostante l’inadeguatezza delle imbarcazioni, queste riuscirono nel loro intento perché i Song, tra i più grandi ingegneri navali della storia, inventarono il sistema degli scafi a paratie, ovvero divisi in stanze a tenuta stagna, vale a dire che se c’era una falla e si imbarcava acqua veniva inondata solo la stiva interessata senza far affondare la nave. Questa tipologia di imbarcazione però non riuscì a sostenere la violenza del tifone.

Infine, la morte di uno degli ammiragli creò un forte ritardo nella partenza della flotta proveniente dalla Cina meridionale. È proprio qui la chiave di lettura. Infatti, l’attacco era previsto circa tre mesi prima e difatti la falange coreana attese molto nell’avamposto di Iki che giungesse il grosso della forza dalla Cina. Quando non potettero più aspettare attaccarono la Baia di Hakata, ma furono sconfitti dalla difesa giapponese e tornarono in patria. Il ritardo dei cinesi era notevole, ed ecco la decisione fatale. Se avessero rinunciato a partire, il danno economico sarebbe stato enorme, a tal punto a far cadere del tutto le finanze imperiali, quindi tra il rinunciare ed il tentare di arrivare prima del tifone, scelsero quest’ultima possibilità. Certo è che per cabotaggio non sarebbero arrivati in tempo, quindi tentarono il tutto per tutto affrontando una rotta diretta di mare aperto.

Fatta la scoperta, come sarà possibile rendere fruibile al grande pubblico gli esiti di questo storico ritrovamento archeologico?

I progetti dell’IRIAE non terminano mai con la ricerca archeologica, ma si estendono fino alla adeguata divulgazione ed alla realizzazione di progetti di fruizione turistica. Ebbene il Giappone non fa eccezione. Anzi! Tra le tante cose di cui la nostra nazione e nello specifico la Campania ed il Sud possono andare orgogliosi è proprio questa. Da quando è iniziata la collaborazione tra me ed Hayashida, più volte il governo giapponese ha mandato alcuni suoi rappresentanti a studiare i due parchi archeologici subacquei più importanti del mondo. Il primo, il nostro Parco Archeologico Sommerso di Baia, che non credo abbia bisogno di presentazioni, dove ho lavorato anche io, ed il siciliano sito archeologico di Cala Gadir a Pantelleria (TR), frutto del lavoro di Sebastiano Tusa e della Soprintendenza del Mare.

L’importanza delle nostre scoperte ha fatto si che già nel 2011 il sito archeologico di Takashima fosse nominato Parco Archeologico Sommerso Patrimonio Nazionale, il primo in assoluto nell’arcipelago Giapponese. Perciò i Giapponesi hanno chiesto al team italiano, non solo di proseguire nelle ricerche, ma anche di guidare la realizzazione di quello che sarà il museo sommerso di Takashima che vorrà adoperare il sistema di suddivisione dall’area marina protetta adottato a Baia ed il sistema di telecamere per la fruizione remota utilizzate a Cala Gadir.

Lo scorso ottobre ha presentato nella sua città, Napoli, il lavoro da lei svolto negli ultimi anni in un incontro col pubblico tenutosi presso l’Archeobar nella centralissima via Mezzocannone. Ci vuol parlare di questo luogo visto che, a quanto abbiamo letto, sarà sede di altri incontri che la vedranno protagonista?

Si, l’Archeobar è qualcosa che sento molto vicino perché è un atto di coraggio, il frutto della determinazione di due grandi amici, Nicoletta Insolvibile, archeologa terrestre e subacquea, ed Andrea Botte, non archeologo ma persona dalla spiccata sensibilità culturale. Si tratta di un caffè letterario a tema archeologico, ma sensibile a tutte le espressioni culturali. Difatti, i numerosi eventi spaziano da interventi a tema archeologico (trattati con tono del tutto divulgativo ed avvincente), a mostre d’arte, contest e mostre fotografiche, presentazione di libri, ed il venerdì e sabato l’attività si estende alla notte, ospitando inoltre un programma di musica live. Il locale è gestito con competenza ed estrema cordialità, oltre ad essere arredato con gusto estremo ed in modo “tematico”, il bancone infatti è la riproduzione di una stratigrafia archeologica. La sala superiore oltre ad ospitare gli eventi è una vera e propria biblioteca con libri che possono essere presi in prestito. Credo che l’Archeobar sia il luogo ideale per le nostre presentazioni dirette al grande pubblico e agli appassionati perché lo spirito che si percepisce è proprio lo stesso…una sorta di motto: “vorreste fermarci? Ma noi ci crediamo ed andremo avanti!”

Pochi giorni fa lei ha invece presentato a Milano il suo International Research Institute for Archaeology and Ethnology. Si è parlato anche di una prossima partnership con la milanese AdAC (Accademia delle Antiche civiltà). Ci vuol dire qualcosa di più preciso sulla nascita e sulle sue finalità di questo istituto? In un momento in cui in Italia è difficile più che mai avere fondi per attività scientifiche, ci spiega in che modo riesce a finanziare le sue?

L’IRIAE nasce dalla volontà di attivare una vera e propria rivoluzione all’interno del settore della ricerca archeologica ed etnologica e nello sviluppo dei rapporti culturali tra i paesi. Far si inoltre che la ricerca sia un trampolino di lancio per lo sviluppo economico delle realtà ospitanti. Creare una community di persone che seguano le nostre “avventure” con spirito di partecipazione. Tutto questo è spiegato nei dettagli nel nostro sito internet (www.iriae.com) e sui nostri due (uno in italiano ed uno in inglese) profili facebook. Cinque sono le nostre parole chiave: Ricerca, Comunicazione, Divulgazione, Formazione, Lavoro. Fare Ricerca archeologica ed etnologica in tutto il mondo per apportare un contributo alla conoscenza dell’uomo e della sua storia, e provare che l’unica reale globalizzazione è la “globalizzazione culturale”.

Un giorno Marco Merola, il nostro responsabile della Comunicazione mi disse “se non condividi e comunichi la scoperta, allora non hai scoperto nulla”. Noi crediamo nella comunicazione ai suoi massimi livelli, che sia solida scientificamente ma divulgativa, che arrivi a tutti. Soprattutto in Italia c’è un forte distacco tra la popolazione e la propria storia, come anche verso l’archeologia, questo, secondo noi, è vero perché non esiste, fatta eccezione per alcune mosche bianche, un’adeguata comunicazione che qui è sempre troppo scientifica, accademica e per addetti ai lavori. Bene, noi vogliamo cambiare rotta! Vogliamo far si che le persone trovino le nostre avventure avvincenti a tal punto da sentirsi partecipi. Ecco che in seno all’IRIAE, l’importante ufficio dedito alla comunicazione sta organizzando un gruppo di documentaristi che realizzerà documentari dalla forte componente divulgativa.

L’IRIAE si impegna inoltre a formare archeologi, etnologi, divulgatori, linguisti e tecnici nei settori di competenza. Purtroppo oggi l’Università, a causa dei forti problemi e dei tagli, fornisce un’istruzione che sempre più spesso mostra lacune che ledono la crescita professionale dei giovani che vorrebbero lavorare in questi settori. L’IRIAE non vuole assolutamente sostituirsi agli enti preposti a tale scopo, ma con spirito di collaborazione vuole mettere le sue professionalità a disposizione di studenti e neo-laureati, come anche di professionisti che desiderano specializzarsi in particolari settori della ricerca e della divulgazione.

Infine, il lavoro, questa parola sempre più lontana ed estranea soprattutto nei nostri settori. Noi dinanzi alla crisi generale e nello specifico della ricerca, ci siamo rimboccati le maniche e vorremmo che quante più persone possano collaborare e poter avere nuove e reali possibilità di lavoro. Non è giusto che uno studente mosso da passione per una materia, che ha speso un quarto della sua vita per il raggiungimento di un obiettivo formativo, pagando non poco la sua istruzione, non possa fare di questa passione il suo lavoro, non possa vivere CON la sua passione. L’IRIAE sta provando a dare questa possibilità, ma per farlo ha bisogno dell’adeguato supporto. Attraverso le nostre tre forme di membership (Professional, Student e Keen) si può entrare in questa grande famiglia. È possibile iscriversi online attraverso il nostro sito.

Non è un mistero che i finanziamenti pubblici oggi lasciano a desiderare: pochi, difficili da ottenere e spesso rimborsati con fortissimi ritardi. L’IRIAE, quindi, pur senza escludere la possibilità di attingere ai finanziamenti pubblici, sposa a pieno l’idea che la cultura può conversare con il privato. Difatti, le nostre spedizioni ed attività vengono supportate da sponsors privati, soprattutto fondazioni, filantropi, mecenati e quant’altro.

Ci anticipi qualcosa sui prossimi progetti in cantiere dell’International Research Institute for Archaeology and Ethnology…

Oltre ad un Tour nazionale già partito ed uno europeo di presentazione dell’Istituto, stanno partendo le nuove spedizioni che si affiancheranno a quella in Giappone che andrà avanti per almeno altri cinque anni. Le nuove missioni in cantiere sono: lo scavo in India della città di Pataliputra, una sorta di equivalente dell’antica Roma di quel paese. Lo scavo in Egitto di due misteriosi templi solari identificati nel medio/basso Nilo. Una spedizione in Turchia dell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma presso l’importante città portuale di Eleiussa Sebaste. L’Università ha concordato con l’IRIAE il prosieguo delle ricerca a terra e a mare stipulando una collaborazione e la coodirezione della stessa.

 fonte immagini con watermark: ufficio stampa IRIAE

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