I falsi archeologici del Museo Salinas di Palermo. Flavia Frisone racconta l’avvincente storia di una beffa

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Uno dei falsi reperti archeologici conservati al Museo Archeologico Regionale Antonio Salinas di Palermo - Ph. Marcello Costa

Uno dei falsi reperti archeologici conservati al Museo Archeologico Regionale Antonio Salinas di Palermo – Ph. Marcello Costa | Photo gallery a fondo pagina

di Rocco Mazzolari

Se per noi oggi dire “falso” significa evocare immediatamente un’idea di contraffazione e di inautenticità, praticamente di truffa, “per secoli il falso è stato un modo per rivivere l’antico, ricrearne ed enfatizzarne gli aspetti più significativi nella prospettiva del proprio tempo”. Ad affermarlo è Flavia Frisone, Professore di Storia Greca e Antichità Greche presso l’Università del Salento di Lecce, la quale il prossimo mercoledì 23 settembre alle ore 17.30, nella sala convegni del Museo Salinas di Palermo, scrigno di tesori archeologici inestimabili, terrà la conferenza “Veramente falsi. I reperti impresentabili del Museo Salinas”, raccontando l’avvincente storia di una “colta” truffa ai danni di studiosi e collezionisti. 

La vicenda ha per protagonisti una serie di reperti esposti proprio in questa occasione dopo oltre un secolo di oblio ed attiene ad un momento storico in cui “il falso era una vera e propria “altra scienza dell’antico”. Un fenomeno che un progetto dell’Institut National d’Histoire de l’Art di Parigi e del Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università del Salento ha cercato di indagare facendo sì – spiega la studiosa – che i falsi del Salinas, “venuti fuori dai depositi in occasione dei lavori di restauro del Museo e resi disponibili dalla illuminata cortesia della Direttrice Francesca Spatafora”, potessero essere valorizzati.

Se dunque i musei italiani ogni tanto tirano fuori dai propri depositi l’inimmaginabile, in termini di preziosità e di bellezza, il Museo Salinas ha optato per degli oggetti volutamente condannati al buio dei magazzini e la cui storia è fatta di segreti che non potevano essere raccontati ed in quanto tali affidati alla consegna del silenzio. Si tratta di una serie di stranissimi oggetti – animali fantastici, incredibili figure umane, scene erotiche e iscrizioni misteriose – “rinvenuti” intorno alla metà dell‘Ottocento a Giardini-Naxos (Messina), e legati a un’intricata vicenda che ha sollevato dubbi, provocato inchieste e sequestri dopodiché sono stati sottratti per sempre alla vista del pubblico.

Oggi questi oggetti ritornano alla luce e come in un giallo verrà indagata quella zona d’ombra in cui un tempo operavano, fianco a fianco – e talvolta in reciproca intesa – illustri archeologi e scavatori clandestini. Connivenze che permisero a tali oggetti di fare il giro d’Europa nel mercato internazionale dei “cacciatori di antichità”. A venire in primo piano è soprattutto la posizione del falsario, in bilico fra sfacciata arroganza ed estrema ingenuità, ma anche un’idea dell’antico legata ad un’archeologia pionieristica, in un tempo in cui, come si diceva prima, i falsi potevano costituire un vero e proprio percorso alternativo di conoscenza.

Di seguito il video che Giusi Garrubbo ha realizzato con le immagini di Marcello Costa, ideatore anche di una campagna multisoggetto in chiave ironica visibile nella photo gallery a fondo pagina [l’articolo prosegue dopo il video].

VERAMENTE FALSI – VIDEO di Giusi Garrubba

 
I FALSI DEL MUSEO SALINAS: ATTORI E CONTROFIGURE

La vicenda che la professoressa Flavia Frisone andrà a narrare condurrà dunque il pubblico “in quella sorta di terra di nessuno in cui operavano fianco a fianco studiosi seri e razziatori di antichità, senza distinguersi fino in fondo, talvolta, se non per i sogni e il livello di “ricarico” ideale che ciascuna categoria attribuiva alla propria “rivisitazione” dell’antichità”.

A rendere però particolare questo caso di falsificazione, è l’aver visto coinvolte diverse istituzioni italiane ed europee, dalla Regia Commissione di Antichità e Belle Arti di Sicilia e nazionale, al Museo di Palermo, al British Museum, all’Istituto Archeologico Germanico di Roma. Insomma una enorme mobilitazione intorno a quelli che il celebre storico Theodor Mommsen definì con disprezzo i “pupazzi di Mastressa”. Mastressa è la località di Giardini-Naxos dove un tale Gaetano Moschella, contadino e fittavolo di un terreno nel quale erano emersi resti antichi, riuscì a vendere – fra il 1865 e il 1876 – al Museo archeologico di Palermo e a diverse istituzioni straniere oggetti bizzarri che sosteneva di avere scavato in zona.

Gli oggetti sono numerosi ma a colpire non sono tanto quelli che riecheggiano certe offerte votive tipiche del mondo antico – in quanto modellati a forma di frutti, pesci o altri animali – quanto piuttosto alcune sculture figurate, inconsuete per soggetto e caratterizzate da complessi motivi decorativi. Di fronte a tanta bizzarria l’idea di una falsificazione finì col farsi strada, ma nessuno fu mai in grado di provarla, soprattutto per la strenua difesa che l’allora massima autorità archeologica in Sicilia, Francesco Saverio Cavallari, Direttore delle Antichità e membro della Commissione per le Antichità e Belle Arti di Sicilia, fece di tali oggetti, favorendone di fatto la circolazione. Nel 1865 fece acquistare alla Regia Commissione per le Antichità e Belle Arti alcuni reperti archeologici provenienti da Mastressa, avallando – sulla base di nuovi acquisti da lui compiuti e di alcune iscrizioni presenti sugli oggetti stessi – la credibilità del citato contadino-tombarolo Moschella e accreditando scientificamente la presunta scoperta.

L’oggettiva rozzezza di quei manufatti fu in concreto attribuita dallo studioso ai limitati mezzi espressivi dei Siculi che già secondo fonti antiche avrebbero abitato l’area circostante la polis calcidese di Naxos. La presenza di iscrizioni fu forse l’elemento principale di quell’accredito scientifico favorito dallo studioso, un elemento che, quasi centocinquant’anni dopo, ha fatto giungere alla conclusione che dietro il furbo contadino analfabeta si sia in realtà celato qualche personaggio munito di ben altri mezzi culturali, pronto a manovrare – almeno nelle prime fasi – l’ingranaggio della beffa.

Cavallari proseguì nella sua opera di validazione degli oggetti conducendo un saggio di scavo nell’area di Mastressa e dandone conto in una nuova, discutibile pubblicazione. Ma stavolta qualcosa andò storto: nel 1875, a una nuova richiesta del Moschella di far acquistare nuovi “reperti” al Museo di Palermo, la Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia, oppose un netto rifiuto. Persino un’indagine dalla magistratura si interessò del caso, ma dei suoi esiti si è persa traccia. Il contadino, dal canto suo, proseguì imperterrito i propri affari con altri acquirenti stranieri ed enti culturali come l’Istituto Archeologico Germanico. Ma si avvicinava a rapidi passi il momento della damnatio memoriae nei confronti di quegli oggetti che Cavallari (forse non del tutto disinteressato) aveva tanto osannato. A decretarla – come ci racconta la professoressa Frisone – fu Giuseppe Fiorelli, massima autorità dell’archeologia del Regno d’Italia, che impose ai falsi di Moschella di finire seppelliti nei depositi “per non disonorare, con la loro presenza, il Museo che esponeva le splendide sculture di Selinunte”.

Cavallari continuò, nonostante tutto, a sostenere l’autenticità e il valore di quei pezzi, confermando le proprie valutazioni. Tuttavia, sebbene mai esplicitamente coinvolto nella vicenda delle falsificazioni, studi degli ultimi decenni hanno rilanciato l’ipotesi di un suo ruolo attivo nella truffa. Le ipotesi circa i modi e le ragioni di una tale forma di coinvolgimento costituiranno un interessante passaggio della conferenza della professoressa Frisone, che potrete seguire a Palermo il 23 settembre alle ore 17.30, presso la sala convegni del Museo Salinas, in Piazza Olivella.

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I falsi archeologici del Museo Salinas di Palermo. Flavia Frisone racconta l’avvincente storia di di una beffa

Museo Archeologico Regionale "Salinas", Palermo

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