Dalla Calabria al British Museum: l’incredibile storia dell’ascia votiva di Kyniskos

Scure votiva magno-greca proveniente da S. Sosti (Cosenza), VI sec. a.C. - British Museum, Londra

Ascia votiva magno-greca in bronzo proveniente da S. Sosti (Cosenza), VI sec. a.C. – British Museum, Londra

Finito a Londra nel 1884, la Calabria invoca da tempo la restituzione dello splendido reperto magno-greco ritenendone illegittime la vendita e l’esportazione 

di Alessandro Novoli

In meno di 20 cm. di bronzo magistralmente lavorato, un “frammento” della leggendaria Sibari delle origini, quella fondata nell’VIII sec. da un gruppo di Achei del Peloponneso e distrutta nel VI dai Crotoniati, dopo aver governato su quattro tribù e 25 città e dato vita a una delle più raffinate declinazioni della civiltà greca in Occidente. Almeno questa è l’origine ancora oggi assegnata dal British Museum alla manifattura della bellissima ascia votiva che reca incisa sulla lama una delle più antiche iscrizioni note in dialetto dorico e alfabeto acheo; un reperto che il museo londinese acquistò nel 1884 da Alessandro Castellani, membro di una famosa dinastia romana di orafi e antiquari, non restio a traffici di materiale archeologico illegale.

E’ interessante ricostruire la storia di questo oggetto per cercare di capire come sia finito in Inghilterra, anche perché ciò accadde dopo circa 40 anni dal suo ritrovamento (1846). Lo faremo attingendo innazitutto alle testimonianze degli storici locali del tempo, fra i primi ad occuparsi di un reperto che subito suscitò grande interesse presso archeologi ed epigrafisti. Come vedremo, molto concorre a far supporre che l’arrivo dell’ascia a Londra sia stato reso possibile da un precedente passaggio in mani private probabilmente illegittimo.

IL LUOGO DEL RITROVAMENTO

Da fonti ottocentesche, come il canonico calabrese Leopoldo Pagano (1857), ricaviamo che l’ascia fu rinvenuta a Casalini della Porta o Casolari della Porta della Serra, luogo in cui si trovano i resti dell’antica e misteriosa città di Artemisiaa 893 metri di altezza, non lontano dal noto Santuario-Basilica della Madonna del Pettoruto, in territorio di San Sosti (Cosenza), piccolo borgo ai piedi del versante sud-occidentale del Pollino. Un sito che nel tempo ha restituito tracce che vanno dalla protostoria fino al medioevo, ubicato in un area che nell’antichità magno-greca dovette essere molto frequentata trovandosi lungo il percorso istmico che dal versante jonico portava a quello tirrenico. Artemisia potrebbe coincidere con la città di Artemision menzionata da Ecateo di Mileto – geografo greco vissuto nel VI secolo – quale insediamento enotrio finito sotto l’influenza di Sibari.
 

Fra le rovine di Artemisia, San Sosti (Cosenza)

Scorcio delle rovine di Artemisia, San Sosti (Cosenza)

A seguito però di una campagna di scavi svoltasi nel 2004 nell’abitato di San Sosti, presso la Chiesa del Carmine, e al ritrovamento – sotto la sacrestia – di un luogo di culto di epoca greca arcaica, con annesse fosse votive piene di oggetti in miniatura e frammenti di statuette femminili stanti e in trono, si è ipotizzato che possa essere questo il luogo originario di provenienza dell’ascia di bronzo. Il sito ha rivelato una frequentazione già dal XIII sec. a.C., come attestano i resti di ceramiche micenee rinvenuti frammisti a pezzi di ceramiche enotrie dell’XI-X sec. a.C., testimoniando così per la prima volta la remota antichità dell’area occupata dall’abitato di San Sosti. Analoghe tracce sono emerse anche dalla ricca stratigrafia del vicino Castello della Rocca che per il periodo greco ha restituito vasetti votivi del VI-V sec. a.C. Siamo dunque di fronte a luoghi di culto attivi fra la metà del VI e la metà del IV sec. a.C., ossia fra gli ultimi anni della vita di Sibari e la vita di Thuri, città che tanta influenza esercitarono su questi luoghi.
 

Veduta del borgo di San Sosti (Cs) - Image courtesy Maurizio De Luca

Veduta del borgo di San Sosti (Cs) – Image courtesy Maurizio De Luca

LA FAMA

Dal Pagano, così come da autori successivi, apprendiamo che nel 1852 l’ascia fu raffigurata in un disegno dal vibonese Vito Capialbi, letterato e studioso di archeologia, e su sua segnalazione pubblicata dall’archeologo napoletano Giulio Minervini che ne dette una descrizione sul “Bullettino Archeologico Napoletano” (1852-1853, pp. 137-139), soffermandosi soprattutto sull’epigrafe, negli anni oggetto di varie letture. Un’altra immagine dell’ascia, sempre tratta dal disegno originale del Capialbi, fu pubblicata nel 1857 sulla rivista Poliorama Pittoresco (p. 204). Pertanto il reperto, negli anni che precedono la vendita al British Museum, era tutt’altro che sconosciuto.
 

L'ascia votiva di S. Sosti nella tavola tratta dal Bollettino Archeologico Napoletano, 1853

L’ascia votiva di S. Sosti in una tavola (tav. 5, fig. 2) tratta dal Bullettino Archeologico Napoletano, 1853

LE CARATTERISTICHE

Il museo che attualmente la detiene, la descrive come un’ascia-martello in bronzo da cerimonia, incisa con una dedica di carattere votivo. All’altezza del foro di inserimento del manico mostra una elaborata decorazione con baccellature, perline e una sagoma stilizzata interpretata come una figura alata raffigurata in posizione frontale, probabilmente una sfinge. L’iscrizione è incisa sulla lama in sette righe con parole in dialetto dorico e caratteri dell’alfabeto greco acheo. “La scure – scriveva già il Pagano nel 1857 – non fu di guerra, ma un sacro donario, un voto che gli Artemisiesi offrirono nel tempio o edicola di Hera”, e questa sua natura si evince, dice lo storico, dall’inidoneità della lama al taglio. “Similmente – aggiunge – fu scritto che Diomede avesse offerto nel tempio di Minerva scuri di bronzo, come attestava l’antichissima tradizione che ci fu tramandata dallo Pseudo-Aristotele e da Strabone”. L’oggetto fu subito ritenuto di grande pregio, “un indizio e un’ombra lontana di quel bello ideale, che i soli Greci sapevano cogliere, inventare, e poi imprimere con l’abilità della facile e dotta mano sulla più ruvida e inerte materia”, e si suppose che la manifattura dell’oggetto fosse riconducibile alle “fabbriche della opulenta e civilissima città di Sibari”, ancora oggi indicata dal British Museum come luogo di produzione.

L’ISCRIZIONE

L’iscrizione sulla scure lascia parlare lo stesso oggetto, evocando dopo millenni la suggestiva atmosfera del tempio che dovette accoglierlo: “Sono sacra proprietà di Hera nella pianura: Kyniskos il macellaio mi ha dedicato, come decima dei suoi lavori”. E’ questa la versione data dal British Museum, cui fanno da contraltare quelle, autorevoli, dell’epigrafista Margherita Guarducci (“Sono sacro di Hera, quella in pianura. Kynískos mi dedicò, lo ortamos, come decima dei [suoi] lavori”, con un punto interrogativo sul significato di ortamos) e dello storico Giovanni Pugliese Carratelli (“Sono sacro alla Hera che ha il suo santuario nel piano. Mi dedicò Kynískos il vittimario, come decima [del compenso] delle sue prestazioni”). Secondo il Pagano è probabile che la dedicataria dell’ascia sia la celebre Hera Lacinia venerata a Crotone, che qui dovette avere un piccolo tempio, e la dedica di un’arma non contraddirebbe questa ipotesi perchè diversi studiosi ravvisano uno stretto legame fra la dea crotoniate e la marziale Hera di Argo, a cominciare dalla condivisione dell’epiteto di Hoplosmia, a cui si dà il significato di “signora delle armi”, come del resto il poeta greco Licofrone definisce Hera Lacinia. Circa l’identità del donante qualcuno ha ipotizzato trattarsi del giovane pugile-lottatore Kyniskos di Mantinea, immortalato dal grande scultore Policleto in una statua in bronzo, ma l’ipotesi non regge poiché l’atleta visse nel V sec. a.C. vincendo un’Olimpiade nel 460 a.C., mentre l’ascia votiva lo precede di oltre un secolo, senza escludere il fatto che nella dedica si allude a un diverso mestiere del donante (macellaio oppure “vittimario”, preposto cioè ai sacrifici animali nei templi).
 

Paesaggio fluviale a San Sosti (Cs) - Image courtesy Maurizio De Luca

Paesaggio fluviale a San Sosti (Cs) – Image courtesy Maurizio De Luca

LA MISTERIOSA SCOMPARSA DELL’ASCIA

Al tempo del Pagano (1857) l’ascia era ancora a San Sosti. A dircelo è lo stesso autore: “La scure è conservata in San Sosti, attuale capoluogo del circondario (…) ma essa ci trasporta con piacevole illusione all’epoca più gloriosa di Magna Grecia, in cui fiorivano Metaponto, Sibari, Crotone e le città enotrie…”. A questo punto però si verifica il corto circuito delle informazioni, almeno di quelle certe, e restano le voci: da un lato quella di chi vuole che l’ascia sia stata venduta da un signorotto senza scrupoli del paese, dall’altro di chi sostiene sia stata portata a Napoli nel Museo Borbonico per la traduzione dell’epigrafe, sparendo poi nel nulla. Comunque siano andate le cose, è certo che nel 1884 si trovava a Roma nelle collezioni di Alessandro Castellani per poi finire all’asta, lo stesso anno, presso l’Hotel Drouot di Parigi, dove venne acquistata da Sir Charles Thomas Newton, archeologo e funzionario del Dipartimento delle Antichità del British Museum.

Sia l’una che l’altra ipotesi hanno una loro dose di verosimiglianza, nel senso che Castellani potrebbe aver acquistato il reperto a S. Sosti tramite una trattativa privata o, peggio ancora, esserne venuto in possesso a Napoli, città in cui aveva molti interessi economici (dai primi anni ’60 ebbe una succursale della propria ditta in via Chiatamone) e molti amici negli ambienti della archeologia ufficiale, fra cui lo stesso Giulio Minervini: in entrambi i casi ciò sarebbe avvenuto con possibile violazione del decreto borbonico che vietava l’esportazione di qualunque oggetto di interesse storico-artistico, ed è da dubitare che l’ascia, finita subito all’attenzione degli studiosi, non fosse considerata tale dalle autorità del tempo.

GLI ERRORI DEL MUSEO 

Dopo il danno, anche la beffa: sottratta ai suoi luoghi di origine, l’ascia fu a lungo esposta al British Museum con un’etichetta errata che riportava la provenienza da “Casilini di S. Agata”. L’intervento dell’archeologa Paola Zancani Montuoro negli anni ’60, portò alla correzione in “Casalini di S. Sosti”. Tuttavia, fino al 2008, rimase erroneamente indicata la Campania come regione di provenienza, anziché la Calabria, errore finalmente riparato grazie alla segnalazione dell’avvocato sansostese Vincenzo De Luca, che ha anche pubblicato diversi articoli sull’argomento.

LE RIVENDICAZIONI ITALIANE

Definite le giuste attribuzioni geografiche dell’opera, resta il fatto che da oltre vent’anni, il Comune di San Sosti sta cercando, attraverso il Ministero per i Beni Culturali, di rivendicare la restituzione dell’ascia votiva di Kyniskos contestando la legittimità del suo trasferimento a Londra. Una prima eclatante iniziativa si ebbe nel 1996, quando il reperto fu esposto al Palazzo Grassi di Venezia in occasione della celebre mostra “I Greci in Occidente”: l’allora sindaco di San Sosti, Silvana Perrone, sollecitò un’interrogazione parlamentare, presentata alla Camera dei Deputati dall’On. Domenico Romano Carratelli, con cui si chiedeva al Governo italiano di intervenire presso quello britannico per chiedere la restituzione. L’allora Ministro ai Beni Culturali Walter Veltroni comunicò al sindaco di aver inoltrato la richiesta senza tuttavia ricevere alcuna risposta dalle autorità britanniche. Nel 1999 fu inviata, senza alcun esito, una nuova lettera di sollecitazione all’allora Ministro Giovanna Melandri. Nel 2008 il sindaco Vincenzo Bruno, supportato dal Parco Nazionale del Pollino e dalla sezione locale dei Gruppi Archeologici D’Italia, scrisse all’allora Ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, affinché si attivasse per far ritornare l’ascia votiva in Italia, dopo aver verificato “la sussistenza, presso gli attuali detentori, dei titoli che ne giustificano il possesso e la legittimità delle modalità della sua acquisizione”. Altra iniziativa senza seguito. Da ultimo, nell’aprile 2016, l’allora deputato Franco Bruno ha presentato, al Ministro Dario Franceschini, una “Interrogazione a risposta scritta”, chiedendogli se fosse possibile “avviare una più serrata fase di mediazione con il British Museum per la restituzione dell’ascia di San Sosti” e se “nell’attesa di concludere la trattativa per la restituzione del bene, o in alternativa”, non fosse possibile avanzare una richiesta di prestito del reperto per una esposizione temporanea in Calabria. A XVIIa legislatura terminata, non risulta essere mai pervenuta alcuna risposta del ministro, come si evince dalla copia ufficiale on line della interrogazione il cui iter risulta assurdamente indicato come ancora “in corso”.

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Bibliografia:

Francesco Capalbo, Della raminga scure, in Le Apuane – Rivista di Cultura, Arte, Etnologia n.59, Centro Culturale Apuano, 2010, pp. 160

Margherita Guarducci, La scure martello di S. Sosti. La dedica, in Paola Zancani Montuoro (a cura di), Ricerche intorno a Temesa, in Atti e memorie della Società della Magna Grecia, 10, 1968-1969, pp.47-52, tav.VIII

Domenico Marino – Franco C. Papparella, Ricerche archeologiche nel Pollino sud-occidentale. Prime considerazioni sulle campagne di scavo 2004 nella chiesa del Carmine e nel Castello della Rocca di San Sosti (Cs), in Fasti On Line Documenti e Ricerche, ed. Associazione Internazionale di Archeologia Classica, Roma, 2008

Giulio Minervini, in Bullettino archeologico napoletano, 1852-1853, pp.137-139

Paola Zancani Montuoro, Hera e il demone, in Paola Zancani Montuoro (a cura di), Ricerche intorno a Temesa, in Atti e memorie della Società della Magna Grecia, 10, 1968-1969, pp.7-19

Leopoldo Pagano, in Domenico Cerbelli (a cura di), Opuscoletti varii, ovvero Monografia di Mottafollone: Storia della sacra cinta e Raccolta di massime morali, Napoli, 1857, pp. 32-44

Giovanni Pugliese Carratelli, in Megale Hellas, Garzanti-Scheiwiller, Milano, 1993, p. 38

Un commento

  1. vincenzo de luca

    L’intermediario calabrese conte Vito Capialbi, con il segretario generale della Accademia Pontaniana, Minervini, non fanno nessun riferimento ad una dichiarazione di interesse culturale dell’ascia. Sarebbe bastato dichiarare l’oggetto di interesse regale (documento equivalente) per impedire la prescrizione (non risulta purtroppo negli archivi borbonici nessun atto dichiarativo e neanche successivamente) nel rivendicarne l’appartenenza al British museum…

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